giovedì 17 ottobre 2019

Genesi spiegata come realmente è

Il Libro della Genesi è il primo dei cinque libri che compongono attualmente la parte della Bibbia chiamata «Pen­tateuco» (dal greco = "cinque astucci" o "contenitori") o, in ebraico, «Torah» (= “istruzione-insegnamento”), contenente l’indicazione del cammino da seguire per realiz-zare una vita pienamente riuscita perché vissuta in ascolto di Dio e del suo progetto, nella consapevolezza che la paro­la del Signore è lampada che illu-mina la strada da percorrere per essere felici (cfr. Sal 119,105; cfr. Sal 1,1). 


Il titolo italiano «Genesi» deriva dal greco «Ghènesis», che significa "Origine" o "Generazione". Il libro fu denominato così nelle antiche traduzioni greche e latine perché parla delle origini del mondo, dell’umanità, del popolo di Dio. Poiché gli ebrei sono soliti indicare i libri della Sacra Scrittura con le prime parole del testo biblico, ancora oggi essi chiamano quest'opera con l'espressione iniziale «Bereshit» (="In principio"). Questo è il «principio» della Rivelazione divina nelle Scritture, il «principio» della «Torah», il «principio» di quella serie di eventi che è la storia della salvezza, il «principio» del dialogo tra Dio e l'uomo che avrà il suo vertice in un altro «principio» parallelo a questo: «In principio era il Verbo» del vangelo di Giovanni (cfr. Gv 1,1). 

Chi sono i padri che hanno scritto i racconti della Genesi 

Come tutto il Pentateuco, la Genesi ha raggiunto la sua sistemazione attuale abbastanza tardi nel tempo, nei secoli V-IV a.C. in Giudea: primo destinatario fu il popolo d'Israele, in particolare quella parte tornata dall'esilio babilonese (post esilio). 

Secondo l'ipotesi oggi maggiormente condivisa dagli studiosi, la trama narrativa attuale non sarebbe stata scritta a tavolino da un unico autore, ma sarebbe il frutto di un lungo processo di formazione. Gli ebrei hanno continuamente riflettuto sulla propria origine, ricollegandola alla nascita del mondo ed alla loro storia, perciò il redattore finale avrebbe unito diverse tradizioni orali tramandate di generazione in generazione, cercando di armonizzarle. Nel testo esistono discontinuità, ripetizioni, differenza di stile e vocabolario, che permettono di individuare due gruppi di autori che hanno portato con sé la memoria di momenti storici e ambienti diversi del popolo d'Israele, convogliando riflessioni teologiche differenti sulla loro esperienza con Dio e sulla sua promessa di perenne fedeltà nell’amare e proteggere il suo popolo. 


Un primo gruppo è quello formato dai "sacerdoti" divenuti le guide spirituali della comunità ebraica in esilio nel VI secolo a.C. a Babilonia, in seguito alle deportazioni, dopo la distruzione di Gerusalemme per opera di Nabucodonosor nel 586 a.C.. Questa “redazione sacerdotale” [o "P" da «priester codex»= "codice dei preti"] desidera rispondere a precisi interro­gativi sorti nelle comunità ebraiche in esilio e/o in diaspora, oltre che in quelle residenti in Giudea, circa il volto del Dio in cui credono e circa la loro presenza nella storia dell'umanità. Essa si caratterizza per uno stile preciso e solenne, attento alle cronologie e alle genealogie. 

Un secondo gruppo è quello degli "anziani" o sapienti laici [redazione “Jahvista”o J poiché Dio vi è chiamato JHWH]. La narrazione Jahvista nasce da una riflessione sulla storia letta in modo profetico, preoccupandosi non tanto dei fatti di cronaca, quanto del loro significato per la fede in JHWH, Liberatore e Alleato del popolo ebraico. 

Entrambi i gruppi, alla luce della loro esperienza storica, desiderano offrire delle risposte adeguate agli inter­rogativi lasciati aperti dalla triste esperienza dell'esilio babilonese (587-538 a.C.) e a quelli suscitati dalla situazione di diaspora (abbandono della terra natale da parte dell’intero popolo ebraico disperso in varie parti del mondo) in cui vivevano le comunità ebraiche sotto l'impero persiano, circa la loro identità in quanto "popolo eletto dal Signore". 


Che cosa ci raccontano i nostri padri nella Genesi

L'opera si sviluppa come un grande dittico, formato da due grandi affreschi, e va compresa spostando continuamente lo sguardo dall'uno all'altro affresco, perché nessuna delle due parti è completa in se stessa. 

Nel primo affresco (1,1-11,26) ritroviamo la narrazione dell'origine del mondo, degli esseri viventi e, in ultimo, dell’umanità. 

Sono qui affrontati i grandi interrogativi sull'esistenza che gli uomini e le donne di ogni epoca storica si pongono riguardo alle origini dell'universo e dell'uomo (da dove veniamo?), alla propria identità (chi siamo?), al giusto rapporto con Dio, al problema del bene e del male, del dolore, della morte, alla crescita dell'umanità e al suo differenziarsi nello scorrere del tempo (verso dove andiamo?). Fin dall’inizio (cfr. 1,1) il testo collega la creazione a Dio, dal quale dipendono il tempo e il cosmo nelle sue parti, tutte definite "buone", ed è evidenziata la sua intenzione positiva nel creare il mondo e l'umanità (capitoli 1-2: P e J). Da subito il Signore si fa vicino all’uomo, prendendosi cura di lui in vari modi, proponendogli una relazione che andrà poi specificandosi come alleanza. 

L’uomo è descritto come creatura capace di porsi di fronte al suo Creatore, poiché dotato di una certa autonomia e di autodeterminazione. Attraverso una narrazione drammatica i "nostri padri narratori" ci portano a prendere coscienza della scelta dell'uomo-donna di sempre di non accogliere la Parola di Dio come criterio delle proprie scelte introducendo così il male nelle relazioni tra marito e moglie (capitolo 3: J), tra fratelli (4,1-16: J) e nella società (4,17-24: J), male che pur non fermando del tutto la benedizione di Dio (capitolo 5: P) può portare l'umanità all'autodistruzione con il diluvio (capitoli 6-9: J e P). Dio però riprende in mano la storia umana impegnandosi a proteggere la vita delle sue creature (9,1-17: P) che si espandono su tutta la terra (capitoli 10 e 11,10-26: J e P) nonostante la loro riluttanza (11,1-9: J). 

Nel secondo affresco (11,27-50,26), più vasto, il mondo e la storia dei primi esseri umani sono lo sfondo su cui prende rilievo il quadro della nascita del popolo ebraico e della sua missione iniziata fin dal tempo dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Il racconto si conclude con la migrazione in Egitto di Giacobbe e della sua famiglia. 

In ogni momento, il protagonista delle vicende è sempre e soltanto Dio che, con la sua presenza e la sua parola, proietta una luce di speranza anche sulle situazioni più angosciose.


Come leggere la Genesi


Per secoli quest'opera è stata letta in modo letterale, un po’ ingenuo, senza porsi domande di sorta, ma accettando come un dato pacifico l’esistenza del giardino di Eden, il fatto che i serpenti parlino, la raffigurazione di Dio che passeggia nel giardino cercando un po’ di fresco all’imbrunire, ecc. Da tempo è stato invece riconosciuto che non è possibile avvicinarsi alla lettura della Genesi senza tener conto della mentalità e del tempo in cui è stata scritta; affrontandola con i parametri di pensiero odierni si corre il rischio di non comprenderne affatto il messaggio ed il contenuto profondo.


La Genesi appartiene a un genere letterario particolare, comune ad altri racconti simili che provengono dal Vicino Oriente antico: il mito. Come tutti i libri sacri, essa non vuole avere il carattere di un testo storico o scientifico, almeno secondo la concezione moderna del termine, e non deve essere letta come se narrasse fatti avvenuti in un lontano passato e in un determinato luogo geografico. Ciò che interessa all’autore sacro non è dire "come" Dio abbia creato gli animali o l’umanità, bensì manifestare l’amore di Dio, indicando qual è il senso del Creato e dell’uomo in relazione con il Creatore, ed offrire una risposta religiosa ad alcune delle vicende fondamentali che l'uomo incontra vivendo la propria vita.

Il racconto è comprensibile solamente a patto di tenere ben presenti alcuni dati: Dio c'è, opera - e operando si manifesta - e desidera comunicare ancora oggi il suo messaggio at­traverso ciò che si sta leggendo.

Accostare alla lettura della Genesi an­che quella di altre pagine bibliche può risultare utile per familiarizzarsi con la parola di Dio e conoscerla sempre più.

Ecco uno schema del libro della Genesi:
Creazione e riposo divino (1,1-2,4a)
Gli inizi dell'umanità (2,4b-25)
Le scelte dell'umanità (3,1-24)
Il giardino e la colpa (2,4b-3,24)
Caino uccide Abele (4,1-16)
La discendenza di Caino (4,17-24)
L'umanità "benedetta" continua il suo cammino (4,25-5,32)
Noè e il diluvio (6,1-9,29)
L'umanità dopo il diluvio (10,1-11,26)
Abramo (11,27-25,18)
Isacco e i suoi figli Esaù e Giacobbe (25,19-37,1)
Giuseppe e i suoi fratelli (37,2-50,26).



CREAZIONE E RIPOSO DIVINO (1,1-2,4a)

La prima parte della Genesi (1,1-2,4a) è attribuita alla tradizione sacerdotale (P). Con un ritmo cadenzato e ripetitivo e con il tono solenne tipico delle celebrazioni cultuali, l’autore di questo poema liturgico - vero "inno a Dio crea­tore" - desidera proporre una catechesi meditativa sulla creazione, perciò non si preoccupa tanto di rispondere alle domande sul "come è successo", "da quando esiste", "da dove proviene" l’universo, quanto piuttosto di interrogarsi sul senso della sua presenza alla luce dell'atto di fede nel Signore Liberatore e Creatore; egli desidera affermare che all'inizio di tutto c'è Dio con la sua azione creatrice e che la creazione non è il risultato di una lotta tra gli dèi, come nei miti dell'antico Vicino Oriente, bensì il frutto della decisione e dell'azione divina. Il mondo dipende da Dio e nel suo piano originario esso è armonico, ordinato, bello e perfetto.

La creazione è qualcosa di inedito, insolito, insperato, meraviglioso. La logica dell’intervento divino è quella tipica dell’artigiano, che dapprima prepara l’ambiente e poi lo adorna, migliorando ulteriormente la propria opera. Inizialmente il Creatore entra in azione mettendo ordine in quelle che, secondo la concezione tipica del mondo semitico di allora, erano le tre parti principali del cosmo: il cielo, le acque, la terra. Le tre opere seguenti sono un "ornamento" degli elementi prodotti nelle prime; ciò che è stato creato nei primi tre gior­ni trova il corrispondente nei tre giorni successivi. Così la luce fatta esistere al primo giorno è posta in relazione con quanto offre luce al quarto giorno (sole, luna, stelle, astri destinati a riflettere la luce e a indicare le stagioni e le feste), il firma­mento, che al secondo giorno divide le acque supe­riori da quelle inferiori, al quinto giorno è popolato dagli «uccelli del cielo» mentre i pesci riempiono le acque inferiori; infine al terzo giorno viene fatta emergere la terra, sulla quale crescono le erbe e gli alberi, e al sesto giorno gli animali e gli esseri umani vi prendono dimora e si nutrono della sua vegetazione.

Tutto si snoda attraverso l'intrec­cio di due schemi: quello temporale, dei "sette giorni" (6 volte «E fu sera e fu mattina») e quello operativo dell'«agire» (10 volte si adopera il verbo «fare») e, soprat­tutto, del «parlare» di Dio (10 volte l'espressione: «Dio disse»).

Ogni atto della creazione presenta quasi sem­pre la stessa struttura con il ripetersi di elementi caratteristici:
Introduzione del comandoPer dieci volte si ripete: «E Dio disse. Ogni cosa creata è frutto del "parlare" di Dio, perciò il creato è pieno delle sue parole che, insieme, formano un discorso, un messaggio divino. Il dieci è un numero significativo, perché richiama immediatamente alla mente le dieci parole del Decalogo, i "dieci comandamenti" con i quali il Signore, sul Sinai, ha creato Israele come "popolo dell'alleanza" (cfr. Es 20,1-17), dopo averlo liberato dal caos della schiavitù d'Egitto. Come il mondo esiste attraverso quelle che gli ebrei definiscono "le dieci parole di Dio", così attraverso l’obbedienza alle dieci parole della Legge l’essere umano può davvero esistere come uomo.
Comando: «Sia-siano...». Ogni creatura esiste "per chiamata" divina e non semplicemente per un processo di autoesistenza. Il Signore è diret­tamente e personalmente coinvolto nell'atto creativo come afferma il Salmo 8 che parla di «opere delle tue dita» (cfr.    Sal 8,4). Nella Bibbia il verbo «bara'» (="creare, fare senza avere mezzi materiali") è utilizzato 49 volte ed ha sempre Dio come soggetto. Creare è qualcosa che riesce facile al Signore perché proviene dalla sua identità più profonda di essere "misericordia" («chesed») e "tenerezza" («rachamim»): l'esservi fedele è la sua giustizia («zedaqah») che fa esistere tutte le cose e rende possibile la vita dell'umanità.
La creazione è il passaggio dal caos iniziale confuso e disordinato (1,1-2) a un mondo "buono/bello" nel quale è possibile la vita di tutti gli esseri viventi. Il Creatore chiama all'esistenza tutti gli esseri secondo un progetto ben organizzato. Le opere si susseguono in un ordine armonioso di dignità crescente, andando da ciò che è più essenziale e meno differenziato (la luce) fino a ciò che è più perfetto: l’essere umano creato al sesto giorno (1,26-28).
L'atto della creazione è un «fare separando» («badal»): Dio separa la luce dalle tenebre (1,3-5), le acque «che sono sopra il firmamento» da quelle che si trovano sotto (1,6-8). Quindi fa emergere la terra dal mare (perciò "li separa"; 1,9-10) e stabilisce che ogni vegetale faccia il seme «secondo la propria specie» (1,11-13) e che gli animali generino ognuno «secondo la propria specie» (1,20-25).
"Separare" serve a differenziare ogni realtà in modo che sia distinta e gerarchizzata rispetto alle altre per rendere possibile la relazione tra gli esseri creati, nel rispetto di un disegno divino che prevede la differenza senza violenza e la gerarchia senza sopraffazione.
Esecuzione del comando: «E così fu/avvenne», quale constatazione che la parola del Signore ha una efficacia reale non solo nella storia umana (come per i profeti) ma anche nell'ambito della creazione.
Nome e/o benedizioneDopo averle create, Dio chiama per nome le cose (altro agire della Parola di Dio!), un gesto questo che è segno di potere, di signoria, di dominio. Il nome, nella mentalità biblica, non è semplicemente un modo convenzionale con cui si indica una realtà, ma ne rivela il senso profondo; "chiamare qualche cosa per nome" vuol dire conoscerne il segreto.
La benedizione (grande e definitiva "parola" della creazione di Dio) compare solo negli ultimi tre giorni della creazione, cioè quando comincia la vita con la comparsa di pesci, uccelli, animali e dell'essere umano (gli antichi non consideravano i vegetali come esseri viventi). Dio benedice gli esseri creati (verbo «barak»), per immettere in essi una forza salutare positiva che li fa esistere, assicura consistenza e dona vita e fecondità. Non si tratta semplicemente di un augurio che porta a "dire bene” di una realtà, quanto piuttosto di un impegno da parte di Dio a garantire crescita, fecondità, ben-essere e bene-stare. È l'equivalente di «shalom»= “pace”, inteso come prosperità, salute, pienezza di vita.
Valutazione o giudizio sulla realtà creata. Alla fine di ogni giorno, Dio si mette in contemplazione di quanto ha fatto («vide») e se ne compiace. Siamo di fronte al primo atto d'amore del Creatore verso le sue creature. Sette volte il testo ripete: «E Dio vide che era cosa buona/bella» («tob»), specificando nell'ulti­ma (l'essere umano) che è «cosa molto buona/bella». Lo sguardo divino non è quello di qualcuno preoccupato di sfruttare ciò che vede, quanto piuttosto quello di chi gusta la pre­senza della realtà creata e ne riconosce la intrinseca armonia. Ogni cosa creata reca al suo Creatore gioia e soddisfazione perché è ben riuscita e al posto giusto, adatta allo scopo, corrispondente al suo progetto.
Conclusione cronologica. La creazione non si colloca al di fuori del tempo e dello spazio, ma si svolge nell’arco di sette giorni - una settimana - che per gli ebrei è la struttura base del tempo. Al termine di ogni giorno troviamo l'espressione: «e fu sera e fu mattina», tipica del modo di pensare ebraico. Per gli ebrei, infatti, il giorno inizia alla sera - verso le nostre ore 18.00 - al tramonto del sole, quando si vedono in cielo tre stelle; essi procedono cioè dal buio verso la luce.
Per poter esistere, il creato e l'umani­tà devono essere collocati nel tempo e nella storia. Per iniziativa libera e gratuita, Dio dà origine alla dimensione temporale orientata a una fine, al giorno settimo, il sabato eterno.

«In principio» (1,1-2) 
Capitolo 1
1In principio Dio creò il cielo e la terra.
La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

La narrazione si apre con una breve introduzione. L'intervento creatore di Dio, dal quale ha origine tutto l’universo avviene «in principio» (in ebraico: «bereshît»; in greco: «en archêi»), cioè nel primo momento del tempo e della storia (1,1).
L'universo - indicato dall'espressione «cielo e terra» - si presenta come un luogo in cui Dio sta per mettere ordine attraverso la sua azione creatrice. L'idea della creazione delle cose dal nulla è espressa attraverso vari termini (1,2). Prima che il Signore inizi la sua opera, la terra è un’entità «informe e deserta», cioè spoglia, disordinata e confusa, qualcosa di simile al "caos" inteso come com­pleta assenza di vita e di fertilità, come solitudine estrema, in attesa dell'azione divina. Attorno vi è l’«abisso» («tehom»), immaginato dall'autore sacerdotale come una massa d'acqua, un “oceano”, che si richiama ai miti babilonesi, dove la regina dell'oceano e dell'abisso ­che minacciava di distruggere il creato­ era chiamata «Tiamat», termine affine a quello biblico. Il tutto è immerso nelle «tenebre», negazione della luce e quindi della vita.
Sull'abisso aleggia lo «spirito di Dio» simile a un "respiro" o ad un "vento" che soffia sulla superficie delle acque, contemporaneamente invisibile e potente, legato alla vita e all'energia che rende vivi gli esseri, pronto a en­trare in azione mediante la parola creatrice. Il Salmo 33 afferma: «dalla parola («dabar») del Signore furono fatti i cieli, dal soffio («rûah») della sua bocca ogni loro schiera» (cfr.          Sal 33,6). La tradizione giudeo-cristiana ha identifi­cato la «rûah ’elohîm» con la "sapienza di Dio", principio vitale della creazionee alcuni Padri della Chiesa vi hanno individuato lo Spirito Santo.

La creazione (1,3-2,3)
3Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo.

Tutto comincia dall'iniziativa di Dio. Il vuoto del deserto, della tenebra e dell'oceano-abisso è squarciato dalla sua parola («dabar») creatrice che dice e fa, che domina le realtà più negative, come le tenebre, imponendo loro un limite: ed ecco sbocciare la luce, che è presentata come una semplice "creatura" di Dio (1,4) e non una divinità da adorare come facevano molte popolazioni antiche. Dio la contempla e, come un artista, ne è soddisfatto: «vide che era cosa buona» (un unico termine ebraico, «tob», indica "bontà" e "bellezza").
La presenza della luce rende possibile ogni altra azione, poiché è condizione necessaria per la vita. Conseguenza del suo esistere è la possibilità di distinguere tra luce/giorno e tenebre/notte (1,5), permettendo di orien­tarsi nel tempo e nello spazio e di dare un ritmo re­golare alla settimana e al calendario. 
Dio disse: "Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque". 7Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno

La seconda "separazione" riguarda l’acqua (1,6-8). Secondo la mentalità dell'epoca, il cielo (o «firmamento») è immaginato come una lamina solida e trasparente a forma di cupola, che sostiene le acque di «sopra» (che scendono sulla terra sotto forma di pioggia pas­sando per alcune "finestre" o "cateratte") da quelle di «sotto» che zampillano dalla terra con le sorgenti e formano i fiumi, il mare e gli oceani o abissi. 
9Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l'asciutto". E così avvenne. 10 Dio chiamò l'asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. 
11Dio disse: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie". E così avvenne. 12E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. 13E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
È all'interno delle acque di «sotto» che, il terzo giorno, Dio opera un'ulteriore di­stinzione ponendo una frontiera invalicabile al mare in modo che appaia la terra asciutta, quasi una grande isola circondata dall'acqua, capace di produrre e di essere abitata (1,9-10).
La costituzione del mare e dell'«asciutto» determina le condizioni finali per l'esistenza dei vegetali (1,11-12) che sono pre­sentati in progres-sione, secondo l'altezza: «germogli», erbe con seme, «alberi da frutto». Tutti hanno una propria capacità di ripro­dursi «secondo la loro specie», quindi senza confu­sione, con perfetta autonomia, regolarità e armonia. L'autore sacro evidenzia che la fertilità del terreno non di­pende dagli dèi della fecondità ma è un dono affidato da Dio alla stessa terra, la quale possiede perciò una propria autonomia produttiva.
14 Dio disse: "Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni 15e siano fonti di luce nel firmamento del cielo per illuminare la terra". E così avvenne.
16  E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona. 19E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
Dio con­tinua la sua opera creatrice facendo in modo che do­po la separazione ci sia l'ornamento. Così, al quarto giorno colloca «nel firmamento» le «fonti di luce» (1,14), indispensabili per determinare le celebrazioni delle feste secondo le fasi lunari, per far funzionare la successione dei giorni e delle notti e per indicare gli anni secondo il ciclo so­lare (1,15).
L'autore parla del sole («luce mag­giore») e della luna («luce minore») come di semplici "riflettori", dei quali non sono detti i nomi propri per evitare il rischio - molto attuale nelle mitologie dell’Antico Oriente, specialmente in ambiente babilonese - che siano considerati come divinità. Questi astri non sono dèi da adorare: sono solo delle "luci" utili all'uomo, sono "segni" che indicano la presenza del Dio Creatore, proprio come le lampade che nel tempio di Gerusalemme illuminavano l'area sacra e richia­mavano la presenza del Signore (cfr. Es 25,6; 35,8; Lv 24,2).
20Dio disse: "Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo". 21Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. 22 Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra". 23E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
Al quinto giorno nasce la vita sulla terra. Il cielo è abitato dagli «uccelli alati» (1,21b), mentre le acque vengono popolate dai pesci e dai «grandi mostri marini» (1,2la). Questi ultimi sono esseri inventati dalla fantasia delle mitologie antiche per personificare le forze cosmiche del male che nell'immaginario comune abitavano nel mare. Per un ebreo, abituato al deserto, la grande distesa del mare rappre-sentava il pericolo e il mistero; era il "regno del male". Ma fin dall'inizio la Bibbia tiene a precisare che tutto ciò che è creato è alimentato dal respiro vitale del Creatore; anche le realtà che sembrano più terribili, misteriose e negative sono piene della vita che viene da Dio.
Tutti gli esseri del cielo e del mare ricevono dal Signore la benedizione (1,22), che si manifesta in modo efficace come fe­condità ed è presentata come un comando di riempire gli spazi loro riservati.
24Dio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie". E così avvenne. 25Dio fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la propria specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona.
Infine, nella prima opera del sesto giorno (1,24-25), la terra si popola di bestiame, rettili e animali selvatici, che sono contem­poraneamente prodotti dalla terra stessa (1,24) e fatti da Dio (1,25); questo per indicare che appartengono sì alla ter­ra ma sono comunque creature del Signore.
«Facciamo l'umanità!» (1,26-31)


26 Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra".
27 E Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.
28Dio li benedisse e Dio disse loro:
"Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela,
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente che striscia sulla terra".
29Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde". E così avvenne. 31Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.

Siamo al culmine della creazione, a quell'atto che la conclude "in bellezza", descritto dall’autore sacerdo­tale in un modo speciale, con più dettagli rispetto alle azioni precedenti. Il testo è suddiviso in quattro piccole unità dall'agire specifico di Dio [tre volte “Dio disse” (1,26.28.29) e una “Dio vide” (1,31)].
L'atto creazionale è preceduto da un soliloquio divino aperto da un plurale: «Facciamo l'umanità» (1,26a). Non si tratta di un plurale “maiestatico”, cioè di solennità, né un'allusione alla Trinità come volevano i Padri della Chiesa (la Trinità sarà rivelata solo nel Nuovo Testamento). Questo è invece un "plurale consultivo-deliberativo" (cfr. anche 3,22 e 11,7): il Creatore dialoga con se stesso, con la profondità del suo essere, (Lo Spirito Santo) come fa una persona quando sta per prendere una decisione importante. Ciò indica che l'intenzione di creare l’essere umano nasce da una matura riflessione ed esprime il preciso desiderio divino di porre un’attenzione particolare all'umanità quale compimento della creazione; per questo nessun essere umano è frutto del caso e ognuno ha un valore immenso e insostituibile.
In ebraico esistono diversi termini per designare l'«uomo»; qui è usato «adam», un nome collettivo che indica l'intera umanità. L'importanza dell'essere umano è data dal fatto che egli non è creato «secondo la specie» com'è avvenuto per la flora (1,12-13), la fauna marina (1,21) e terrestre (1,24-25), bensì a «immagine» e «somiglianza» di Dio (1,26b). Nel mondo antico, il re era solito collocare nelle regioni più lontane del suo regno una statua che lo rappresentasse e ricordasse a tutti chi era il sovrano; per il nostro autore ogni «adam» (maschio o femmina) è «immagine», vale a dire "copia conforme l'originale", per rappresen-tare visivamente Dio in terra (il Padre e lo Spirito Santo). Pur essendo fatto «poco meno di un dio» (cfr. Sal 8,6), ciascun essere umano è solo “somigliante” a Dio, cioè  ha “forma analoga" ma non coincidente in tutto e per tutto al suo Creatore; l'uomo non si dà la vita da se stesso, perché esiste dipendendo dall'originale, è creatura che deve il senso profondo del­la propria identità a Dio e al suo Spirito Santo.
L'umanità è distinta nella bi­polarità sessuale di «maschio e femmina» (1,27a): si noti lo slittamento dal singolare («lo creò») al plurale («li creò»). I due sessi sono creati contemporaneamente, in assoluta parità, poiché  ambedue sono dotati della medesima dignità di «immagine di Dio». La differenza sessuale non comporta separazione né contrappo-sizione, quanto piuttosto distinzione nella co­munione reciproca. Quando diciamo che l'uomo è «immagine» di Dio dobbiamo pensare che il Signore si rispecchi in­sieme nel maschile e nel femminile, nell'identità-diver­sità, nella fecondità, nella socialità, nel progetto. D’altronde la tradizione biblica, oltre ai tratti maschili conosciuti, attribuisce al Signore anche quelli tipicamente femminili (cfr. Is 42,14: «partoriente»; cfr. Is 49,13-15 e 66,12-13: "rapporto madre-figlio"; cfr. Os 2 e 11, cfr. Ger 31,20: "tenerezza materna"). Dato che tutta l’infinita ricchezza divina non avrebbe potuto essere contenuta in un solo essere, Dio ha posto alcune sue caratteristiche nel maschio ed altre, complementari, nella femmina, in modo che né il maschio da solo e né la femmina da sola siano immagine divina, ma lo sia la loro unione. Uomini e donne possono essere "icona di Dio" sulla terra solo "insie­me", nel dialogo e nella comu­nione, nella misura in cui entrano in relazione armoniosa tra loro per formare ancora un nuovo «adam».
Ogni particella del creato quando osserva l'amore che vi è tra un uomo e una donna sa che il volto del Signore è presente, che la sua «immagine» continua a riempire la terra.
All'uomo-donna il Creatore concede per prima cosa la possibilità di parteci­pare della sua stessa vita e la capacità di trasmetterla (1,28a). Non si tratta, però, di un comando da eseguire in modo meccanico, quanto piuttosto di un dono affi­dato all'ascolto libero dell’umanità. Il testo, infatti, non si esprime con un "Dio disse e fu" (cfr. 1,3) e neppure con "Dio li benedisse e così avvenne" (cfr. 1,22; 8,15; 9,1), quanto piuttosto con «Dio li benedisse e disse loro».
Ogni essere umano (maschio o femmina che sia) potrà esercitare, a nome del Creatore, una sovranità limitata sulla terra, espressa con due verbi molto forti: "soggiogare" e "dominare" (1,28b). Il primo («kabash») indica il "sot­tomettere” una regione con una occupazione militare e quindi stabilirvi la propria sovranità; il secondo («radah») richiama l'azione del "calcare pesantemente il piede su qualcosa". Queste sono azioni tipi­che di un re e vengono estese ad “ogni” persona umana: perciò "icona della divinità" non è più il solo sovrano - come accadeva presso le popolazioni mediorientali antiche - bensì ogni essere umano che ha una responsabilità enorme da non esercitarsi però in modo autonomo e al di fuori di ogni controllo. Ciascun «adam» è invitato a imitare Dio nel modo di "do­minare" e "soggiogare" la terra: non può essere né tiranno né conquistatorequanto piuttosto un "re pacifico e non violento”, interessato alla vita, al benessere e alla giustizia su tutto il creato (cfr. Sal 72).
L'ultima parola del Signore (1,29-30), che non crea niente di nuovo, specifica solo la preoccupazione che ogni essere vivente abbia di che nu­trirsi, ma nel rispetto della vita e senza violenza reciproca, per­ché Dio è colui che offre a tutti il cibo necessario «a tempo opportuno» (cfr. Sal 104,27). Non siamo di fron­te a una semplice norma vegetariana data all'umanità (anche se così può essere intesa) e smentita successivamente di fronte alla violenza (cfr. 9,3-4), quanto piuttosto a un progetto della provvidenza di Dio che assegna a ogni essere vivente un luogo per vivere.
Giunto alla sera del sesto giorno, Dio contempla il suo capolavoro e vede che l'essere umano non è soltanto «buono/bello», come le altre creature, ma «molto buono/bello» (1,31).
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Ora voglio riportare una interpretazione tratta da una traduzione fatta in modo letterale da una Lectio biblica su Genesi 1,26-28 Convegno Nazionale CEI Pastorale Familiare Nocera Umbra, 26 aprile 2014  Mario Russotto Vescovo di Caltanissetta:

Genesi 1,26 recita: «Facciamo adam a nostra immagine e a nostra somiglianza ... e domini sui pesci del mare». Traducendo in italiano il termine Adam con “uomo”, il traduttore ha dovuto mettere il verbo “dominare” al singolare, mentre in ebraico è plurale. E questo perché adam in ebraico è un singolare collettivo, che va meglio tradotto con "umanità"; e questa umanità è duale, è maschio e femmina. E allora dobbiamo letteralmente tradurre così: «Facciamo umanità a nostra immagine e a nostra somiglianza… e dominino». 

In Genesi 1,27 leggiamo: «Dio creò Adam a sua immagine; a immagine di Dio creò adam, maschio e femmina li creò». Secondo questo primo racconto di Genesi, l’umanità maschio e femmina è il culmine e il capolavoro della creazione, e riceve da Dio il compito di "dominare", cioè di portare a perfezione il creato. Senza umanità maschio e femmina non c’è “cosmo”, non c’è creazione ordinata, perché adam maschio e femmina, che odora di terra e di rosso sangue è “infuocato” (è il significato ebraico di ish-ishah), è custode e liturgo del creato.

 Adam maschio e femmina è selem e demut, che noi traduciamo con “immagine e somiglianza”. Selem e demut in ebraico indicano qualcosa di molto simile all'originale e, nello stesso tempo, assai distante e differente dall’originale. Pensiamo, 2 ad esempio, alla statua del re posta al centro della città perché lo rappresenti. La statua richiama l’immagine del re, ma non è il re! È un po’ come una mia foto: io la guardo e dico: «Questo sono io», ma non intendo dire che io sono un pezzo di carta. Quindi in adam maschio e femmina c’è qualcosa di molto simile a Dio Creatore che, nello stesso tempo, è distinzione e differenza.

 Adam è maschio e femmina, in ebraico zakar e neke bah, termini che letteralmente andrebbero tradotti con “puntuto e svuotata”, oppure “pene e vagina”. L’umanità, dunque, è immagine di Dio in quanto duale. E questa dualità si evidenzia in quanto adam-umanità è puntuto e svuotata. Zakar e neke bah si riferiscono ai genitali che costituiscono e distinguono adam-umanità in maschio e femmina. 



Il riposo sabbatico (2,1-4a)

Capitolo 2

1Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando.
4aQueste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
Il «settimo giorno» è quello più importante; Dio cessa ogni lavoro (come si ripete per due volte; 2,2-3) e si ferma a contemplare l'opera compiuta (2,1-3). Diversamente dai precedenti, il racconto del settimo giorno non è chiuso dal ritornello «E fu sera e fu mattina», perché siamo entrati nel "tem­po eterno del Signore", il tempo «benedetto e consacrato» cui Dio ritorna dopo aver operato nel tempo e nello spazio "profani".
Il «settimo giorno» nella settimana ebraica corrisponde al "sabato", in ebraico «Shabbat», termine che rimanda allusivamente sia al vocabolo “settimo” sia al verbo che significa “riposare” o "astenersi".
Possiamo richiamare i seguenti "significati del «settimo giorno»:
È il giorno della perfezione
Il “sette" è segno di pienezza e perfezione. Il settimo giorno rappresenta il corona­mento, la meta ultima dei sei precedenti ed è il giorno in cui il mondo creato raggiunge la sua pienezza armoni­ca e totale. 
Anche l'uomo, creato nel sesto giorno, entrando come il suo Creatore nel settimo giorno, può partecipare della perfezione di Dio.
È il giorno del riposo.
Dio opera l'ultima creazione, astenendosi dal creare e ri­posando (2,2). Si tratta di una sua iniziativa con la quale manifesta la propria libertà e autonomia da ciò che ha creato; egli non dipende dal "fare-creare" e non ne è schiavo. E poiché ogni persona umana è creata «a immagine e somiglianza» di Dio, ognuno è invitato a imitare il Creatore, indipendente­mente dalla propria essenza e condizione sociale: cessare di lavorare il settimo giorno è non solo di­chiarare l'autonomia da ciò che si produce, ma anche riconoscere di non essere "padrone assoluto" del creato.
È il giorno della benedizione e della liberazione
In questo tempo particolare di «shabbat», Dio si riposa "benedicendo" (2,3). Aven­do a che fare con la fecondità e la vita, la benedizione divina si manifesta come "ri-creazione della vita" a contatto con la sua fonte e come "liberazione" della stessa vita da tutto ciò che la umilia, la mortifica e le impedisce di essere piena di senso. È in questa direzio-ne che porta il "comandamento del sabato": nel libro dell'Esodo è "ricordo-memoriale" della creazione della propria vita e di quella del mondo (cfr. Es 20,8-11; cfr. Lv 25,1-7), nel Deuteronomio è "ricordo-me­moriale" della liberazione dalla schiavitù d'Egitto (cfr. Dt 5,12-15).
È il giorno consacrato da/a Dio
Il verbo ebraico «qadasb» (=“consacrare, santificare") significa anche “appartenere”: il  sabato non è un tempo di proprietà della creatura bensì del Creatore. Lo stesso verbo significa anche "separare": al termine della creazione - che è stata soprattutto un'opera di "separazione" - Dio "separa" il settimo giorno dagli altri sei, lo mette da parte lo riserva per sé.
Questo giorno è sottratto alla gestione dell'uomo e della donna, che non possono sfruttarlo a piacimento, anzi, sono invitati a entrare nel tempo di Dio, nel suo orizzonte, nella sua comunione e intimità.
«Nel settimo giorno farai riposo» (cfr. Es 23,12)
Nella Bibbia il riposo sabbatico è motivato come momento per "riprendere fiato" dopo la fatica, come affermazione del primato della persona sulle cose da fare e come "memoriale" del dono della libertà, dell'allean­za con Dio e del dono della vita.
La tradizione ebraica considera il sabato come segno concreto dell'amore di Dio per il suo popolo. Il termine ebraico «shabbat»,  è femminile e il "set­timo giorno" viene inteso come la sposa del mondo intero e di Israele; il creato viene immaginato come una grande “tenda nuziale" ornata e abbellita, nella quale (il giorno di sabato) è introdotta la sposa. Dal canto suo, Israele è stato destinato a essere il compagno del sa­bato; per questo lo accoglie con gli atteggiamenti di colui che non vede l'ora di incon­trare la persona amata.
In questo giorno gli ebrei - i nostri "fratelli maggiori" - de­vono astenersi da ogni lavoro che dia loro la sensa­zione di avere in mano il mondo o li porti a modifi­care il normale corso della natura e dell'ordine socia­le. Cucinare, sistemare un oggetto, accendere la luce, usare mezzi di trasporto, arare un campo, ecc. sono atti che incidono sul normale andamento della natura, perciò di sabato vengono sospesi. Usando in qualsiasi modo il denaro si alterano i rapporti sociali perché alcuni si arricchiscono, altri impoveriscono, perciò sono sospese anche le attività commerciali ed economiche.
Il sabato è il giorno in cui si capovolgono i valori e si può privilegiare l'essere sull'avere: regnano la pace e la tranquillità, si ha tempo per la famiglia, gli amici, lo studio, la preghiera. Sospendendo il tempo come tempo della produzione (per lavorare) e della fruizione (per soddisfare i bisogni), questo giorno diventa "tempo per l'uomo",  tempo dell'accoglienza, dell'ospitali­tà, della fraternità, della solidarietà e del perdono. È il tempo di rimettere gratuita­mente in circolazione, a favore degli altri, quanto si è ricevuto dalla gratuità di Dio, il tempo delle "opere di misericordia" attraverso le quali l'amore del Signore entra nel mondo e si realizza il suo regno.
Il senso del "settimo giorno"
Celebrare il giorno del Signore significa partecipare alla libertà, al riposo e quindi alla pace di Dio, significa celebrare la nuova alleanza, significa contemporaneamente anticipare il mondo nuovo, in cui non ci saranno più schiavi né padroni, ma solo liberi figli di Dio.
Il settimo giorno (sabato ebraico) fornisce all'uomo immerso nel tempo un assaggio di eternità. Non per niente la Lettera agli Ebrei pro­mette a coloro che aderiscono alla fede in Gesù di Nazaret l'entrata nel riposo di Dio (Eb 4,1-5), il sabato eterno.
Vivendo il "riposo sabbatico" (quello domenicale per un cristiano) come "espropriazione" di sé e come "limite" della propria esistenza creaturale, ogni persona entra nel tempo di Dio, accetta la sua signoria sul tempo e sul creato e si mette nella relazione di­retta con l'Eterno. Che senso ha, per un cristia­no, ridurre la domenica a un semplice precetto da "osserva­re", senza entrare nel "tempo di Dio", che è "tempo di benedizione"? L'uomo che nel giorno di festa celebra la liturgia, vive la comunione con Dio e si stacca dalle cose, è come se gustasse già l'eternità.
Dire "riposo" significa dire felicità e pace, silenzio e armonia, quiete; indica la condizione in cui non si è turbati da dubbio e difficoltà, da con­tesa e rivalità, da lotta e paura. Il riposo non è tempo da consumare come divertimento fine a se stesso perché rischia di essere ul­teriore sfruttamento di sé e del creato; tantomeno deve essere inteso tempo di semplice ricarica per poter lavorare poi ancor di più, perché in questo caso saremmo schiavi della mentalità del profitto. È, invece, «lavoro» di ricreazione della vita a contatto con la sua sorgente, Dio. Solo tale motivazione permette di vivere bene il riposo del settimo giorno e di dar senso allo stesso lavoro settimanale. Riposare è passare da un tipo di "lavoro" a un altro, inteso come "culto, servizio reso a Dio e a se stessi. Lo si pratica "entrando" nel “sabato” per ri-creare il tessuto interiore della propria vita e per accettarsi come creature limitate e bisognose della benedizione del Creatore.
Ogni credente dovrebbe educarsi a vivere il riposo settimanale come "tempo di Dio" e "tempo per l'uomo", ed educare gli altri a fare altrettanto. Oggi viviamo in una cultura consumistico - tecnologica che idolatra il tempo perché è "denaro", che "lotta contro il tem­po" ed è sempre "di corsa contro il tempo", per cui ognuno è convinto "di non avere tempo". "Donare tempo" a Dio, a se stessi, agli altri, al creato, non è forse "do­nare la vita"?

fine del primo racconto Masoretico -Eloista-sacerdotale
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secondo racconto Jahvista

GLI INIZI DELL’UMANITÀ (2,4b-25)
ll racconto della creazione ricomincia daccapo. Seguendo un'altra tradizione - denominata Jahvista (J) (in questo testo ebraico Dio non viene più chiamato Eloimh ma Jahvè) si narra di nuovo la creazione dell’«umanità» (2,4b-7), successivamente presentata come composta da uo­mini e donne in relazione di reciproca accoglienza e stima (2,18-25). Essi sono collocati nel giardi­no di «Eden» con il compito di «lavorarlo e custodirlo» (2,8-15), e soprattutto con il comando/impegno di ascoltare la parola del Signore Dio per farne il fondamento della propria esistenza (2,16-17). Il "paradiso terrestre" è la situazione ideale, quale Dio la vorrebbe: è il "so­gno" che ognuno possa stabilire relazioni armoniose con tutti e così vivere felice e "benedetto".

Seguirà poi la narrazione del testo Javista con le spiegazioni secondo le rivelazioni dei testi Valtortiani.

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