giovedì 31 ottobre 2019

Il nuovo Adam (maschio e femmina)

LIBRO DI AZARIA CAPITOLO 43


Immacolata Concezione e seconda domenica d'Avvento

8 dicembre 1946

   Immacolata Concezione di Maria

   Introito: Salmo 30 (29) 2; Isaia 61, 10.
   Orazione: O Dio, che con l'immacolata Concezione della Vergine preparasti una degna dimora al tuo Figlio, fa', te ne preghiamo, che, come in previsione della morte dello stesso tuo Figliuolo la rendesti immune da ogni macchia, così, per intercessione di Lei, ci conceda di venire a Te purificati.

   Lettura: Proverbi 8, 22-35.
   Graduale: Giuditta 13, 18 (volgata 13, 23); 15, 9 (volgata 15, 10); Cantico dei cantici 4, 7.
   Tratto: Giuditta 15, 9 (15, 10); Salmo 87 (86), 1-3.5; Cantico dei cantici 4, 7.
   Vangelo: Luca 1, 26-28.
   Offertorio: Luca 1, 28.
   Segreta: Accogli, o Signore, l'ostia di salute che ti offriamo nella solennità dell'immacolata Concezione della beata Vergine Maria e fa' che, come cantiamo lei immune da ogni macchia perché prevenuta dalla grazia, così per sua intercessione siamo liberati da ogni colpa.
   Comunione: Cose gloriose sono dette di te, o Maria: perché grandi cose ha compiuto in te colui che è potente.
   Dopocomunione: I sacramenti che abbiamo ricevuti guariscano in noi, o Signore Dio nostro, le ferite di quella colpa dalla quale in modo singolare hai preservato l'immacolata Concezione della beata Maria.
  
   Seconda domenica d'Avvento
   Introito: Salmo 80 (79), 2; Isaia 30, 30.
   Orazione: Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché per la sua venuta meritiamo di servirti con anima purificata.
   Epistola: Romani 15, 4-13.
   Graduale: Salmo 50 (49), 2-3.5; 122 (121), 1.
   Vangelo: Matteo 11, 2-10.
   Offertorio: Salmo 85 (84), 7-8.
   Segreta: Làsciati placare, te ne preghiamo o Signore, dalle nostre umili suppliche e dalle nostre offerte e, siccome non abbiamo alcun sostegno di meriti, soccorrici coi tuoi aiuti.
   Comunione: Baruc 4, 36; 5, 5.
   Dopocomunione: Saziati dal cibo del nutrimento spirituale, ti supplichiamo umilmente, o Signore, ad insegnarci, con la partecipazione di questo mistero, il disprezzo delle cose terrene e l'amore delle celesti.
  

   Dice Azaria:
   «Meditiamo cantando le glorie di Maria Ss. La S. Messa di questa festività è tutta un inno alla potenza di Dio e alla gloria di Maria. Mettiamoci, per ben comprenderla questa liturgia di luce e fuoco, nei sentimenti della Regina e Maestra di ogni creatura che ami il Signore.
   Regina e Maestra! Degli uomini. Ma anche degli angeli. Vi sono misteri che voi non sapete, che non ci è concesso di svelare completamente. Ma sollevarne un velo è concesso perché qualche anima molto amata ne goda. Ed io lo sollevo per te. Un lembo di velo. Dall'ostacolo rimosso ti si concederà di affissare lo sguardo spirituale sull'infinita Luce che è il Cielo, e nella Luce meglio comprenderai. Guarda, ascolta e sii beata.
   Quando il peccato di Lucifero sconvolse l'ordine del Paradiso e travolse nel disordine gli spiriti meno fedeli, un grande orrore ci percosse tutti, quasi che qualcosa si fosse lacerato, si fosse distrutto, e senza speranza di vederlo risorgere più. In realtà ciò era. Si era distrutta quella completa carità che prima era sola esistente lassù, ed era crollata in una voragine dalla quale uscivano fetori d'Inferno.
   Si era distrutta l'assoluta carità degli angeli, ed era sorto l'Odio. Sbigottiti, come lo si può essere in Cielo, noi, i fedeli al Signore, piangemmo per il dolore di Dio e per il corruccio suo. Piangemmo sulla manomessa pace del Paradiso, sull'ordine violato, sulla fragilità degli spiriti. Non ci sentimmo più sicuri di essere impeccabili, perché fatti di puro spirito. Lucifero e i suoi uguali ci avevano provato che anche l'angelo può peccare e divenire demonio. Sentimmo che la superbia poteva, era latente, e poteva svilupparsi in noi. Tememmo che nessuno, fuorché Dio, potesse resistere ad essa se Lucifero aveva ad essa ceduto. Tremammo per queste forze oscure che non pensavamo potessero invaderci, che potrei dire: ignoravamo che esistessero, e che brutalmente ci si disvelavano. Abbattuti, ci chiedevamo, con palpiti di luce: "Ma dunque l'esser così puri non serve? Chi mai allora darà a Dio l'amore che Egli esige e merita, se anche noi siamo soggetti a peccare?".
   Ecco allora che, alzando il nostro contemplare dall'abisso e dalla desolazione alla Divinità, e fissando il suo Splendore, con un timore sino allora ignorato, contemplammo la seconda Rivelazione del Pensiero Eterno. E se per la conoscenza della prima venne il Disordine creato dai superbi che non vollero adorare la Parola Divina, per la conoscenza della seconda tornò in noi la pace che si era turbata.
   Vedemmo Maria nel Pensiero eterno. Vederla e possedere quella sapienza che è conforto, sicurezza e pace, fu una sola cosa. Salutammo la futura nostra Regina con il canto della nostra Luce, e la contemplammo nelle sue perfezioni gratuite e volontarie. Oh! bellezza di quell'attimo in cui a conforto dei suoi angeli l'Eterno presentò ad essi la gemma del suo Amore e della sua Potenza! E la vedemmo umile tanto da riparare da sé sola ogni superbia di creatura.
   Ci fu maestra da allora nel non fare dei doni uno strumento di rovina. Non la sua corporea effige, ma la sua spiritualità ci parlò senza parola, e da ogni pensiero di superbia fummo preservati per aver contemplata per un attimo, nel Pensiero di Dio, l'Umilissima. Per secoli e secoli operammo nella soavità di quella fulgida rivelazione. Per secoli e secoli, per l'eternità, gioimmo e gioiamo e gioiremo del possedere Colei che avevamo spiritualmente contemplata. La Gioia di Dio è la nostra gioia e noi ci teniamo nella sua Luce per essere di essa compenetrati e per dare gioia e gloria a Colui che ci ha creati.
   Ora dunque ripieni dei suoi stessi palpiti meditiamo la Liturgia che parla di Lei.
   "Con gioia". Carattere della vera umiltà è la vera gioia che nessuna cosa turba.
   Chi è umile in modo relativo ha sempre un motivo di turbamento anche nei suoi più schietti trionfi. Il vero e completo umile, invece, non ha turbamento di sorta. Quale che sia il dono o il trionfo che lo riveste di speciale veste, egli è gioioso e non teme, perché sa e riconosce che quanto lo fa diverso dai più non è cosa che egli si è fatta con mezzi umani, ma è cosa che viene da altre sfere e che nessuno gli può rapire. La contempla e considera come vestimento di gran valore che gli è stato dato per portarlo un tempo e che deve essere usato con quella cura che si ha per ciò che non è nostro e va reso senza lesioni a chi lo ha donato.
   Sa anche che questo rivestimento regale, non chiesto per avidità di apparire, gli è stato dato da una Sapienza infinita che ha giudicato bene di darlo. Non c'è dunque affanno per ottenerlo o per conservarlo. L'umile che è veramente tale non brama cose straordinarie e non si turba se chi ha dato leva. Dice: "Tutto è bene perché la Sapienza così vuole". Perciò l'umile è sempre nella gioia. Perché non brama, perché non è avaro di ciò che gli viene dato, perché non si sente menomato se gli vien tolto.
   Maria Ss. ebbe questa gioia. Dal suo nascere al suo assurgere la ebbe sulla Terra, anche fra le lacrime del suo lungo Calvario di madre del Cristo, anche sotto il mare di strazio del Calvario di suo Figlio. Ebbe, nel suo dolore che non fu simile a nessun altro, la gioia esultante di fare, sino al sacrificio totale, ciò che Dio voleva, ciò che Dio le aveva significato di pretendere da Lei da quando l'aveva rivestita con le vesti della salvezza e coperta col manto di giustizia come sposa ornata di gioielli.
   Misura quale caduta sarebbe stata quella di Maria se, avendo avuto la Concezione Immacolata, la giustizia, e ogni altro gioiello divino, avesse calpestato ogni cosa per seguire la voce dell'eterno Corruttore? Ne misuri la profondità? Non ci sarebbe più stata redenzione per gli uomini, non più Cielo per gli uomini, non più possesso di Dio per gli uomini. Maria vi ha dato tutto questo perché con la vera gioia degli umili ha portato le sue vesti di Beneamata dall'Eterno e ha cantato le lodi di Lui, di Lui solo, pur fra i singhiozzi e le desolazioni della Passione.
   Ha esultato! Che profonda parola! Ha sempre esultato magnificando con lo spirito il suo Signore, anche quando la sua umanità conosceva lo scherno di tutto un popolo, ed era sommersa e torchiata dal suo dolore e dal dolore della sua Creatura. Ha esultato pensando che quel suo dolore, quel dolore del suo Gesù, dava gloria a Dio salvando uomini a Dio.
   Sopra i gemiti della Madre, sopra i suoi lamenti di Donna, cantava la gioia del suo spirito di Corredentrice. Cantava con la sommissione a quell'ora, con la speranza nelle parole della Sapienza, con l'amore che benediceva Dio di averla trafitta.
   La lunga passione di Maria ha completato Maria, unendo alle grandi cose che Dio in Lei aveva fatte, le grandi cose che Ella sapeva fare per il Signore. Veramente mentre le sue viscere di Madre gridavano lo strazio della sua tortura, il suo spirito fedele cantava: "Io ti esalto, o Signore, perché mi hai protetta e non hai permesso che i miei nemici potessero rallegrarsi a mio riguardo".
   Vedi che umiltà? Chiunque altro avrebbe detto: "Sono contento di aver saputo rimanere fedele anche nella prova. Sono contento di aver fatto la Volontà di Dio". Non sono queste parole di peccato. Ma un filo di orgoglio è ancora in esse. "Io sono contento perché ho fatto". L'iodella creatura che si sente autore unico del bene compiuto. Maria Ss. dice: "Io ti esalto perché Tu mi hai protetta". Dà a Dio il merito di averla tenuta santa in quelle ore di lotta.
   Dio aveva preparata una degna dimora al suo Verbo. Ma Maria ha saputo serbare quella dimora degna di Dio, che in Lei doveva incarnarsi. Imitatela, o creature. In misura minore, come si conviene a voi, che non dovete concepire il Cristo, ma per quanto vi è necessario a portare il Cristo in voi, Dio vi dà i mezzi ed i doni atti a fare di voi dei templi e altari. Imitate Maria, sapendo serbare la dimora del vostro cuore degna del Santo che chiede di entrare in voi per godere di voi e vivere fra i figli degli uomini, da Lui amati senza misura.
   E se non avete saputo imitarla, e la vostra dimora è ormai una dimora profanata o smantellata dai troppi che l'hanno abitata, ricostruitela in Maria, che è l'amabile e instancabile Madre che genera i figli al Signore, perché attraverso a Maria si va alla Vita, e perciò chi è languente o morto, e non osa alzare gli occhi al Signore, può tornare vivo e gradevole all'Eterno se entra nel Seno, nel Cuore che hanno dato al mondo il Salvatore.
   Il Signore Gesù ti ha spiegato1 la luce del capitolo sapienziale. Io non mi permetto di parlare dove Egli ha parlato. Ma a conferma del mio dire ti faccio notare le parole che la Sapienza applica a Maria: "La mia delizia è stare coi figli degli uomini". Con questi figli, che le sono costati tanto pianto. Ma è delle vere madri piangere e amare, e amare per quanto si è pianto, amare tanto da portare all'amore, piangere tanto da convertire i perversi. Perché troverebbe delizia a stare fra gli uomini questa Benedetta la cui dimora è ab eterno il Cielo, questa Benedetta che ebbe ad abitazione il Seno meraviglioso di Dio, e che fu abitazione a Dio, questa Benedetta il cui Popolo è quello degli Angeli e dei beati, se non per ricostruire i poveri cuori che il mondo e Satana, che la carne e le passioni hanno devastato? Perché troverebbe delizia, se non perché stando fra voi vi ripartorisce a Dio?
   Sentitela cantare nella sua luce di perla: "Beati quelli che battono le mie vie". Le vie di Maria finiscono nel Cuore di Dio. "Ascoltate i miei consigli per diventare saggi, non li ricusate". Una Madre, e santa quale Ella è, non può che dare parole di vita. Ma considerate quanto, nella già piena di Grazia, e perciò di Sapienza, avrà lasciato la Parola portata per nove mesi nel seno, e sul seno per tanti anni. Sul seno nell'infanzia e puerizia, e nella morte, nel Cuore purissimo per 33 anni. Mai è stato inerte Dio-Figlio per la sua amabile Madre. Mai, Egli che non è mai inattivo neppur coi colpevoli uomini. Perciò tutta la Sapienza si è fusa con tutta la Purezza, e Maria non può che parlare con la parola di Dio, con quella parola che il Cristo ha detto Vita di chi l'ascolta. Canta Maria, Lei che sa ciò che è in Lei: "Beato l'uomo che mi ascolta e veglia alla mia porta e attende all'ingresso della mia casa". Abitacolo di Dio, Ella sa che chi in Lei entra trova Dio. Ossia, così come Ella canta: "Chi troverà Lei avrà trovato la Vita e riceverà dal Signore la salute".
   Veramente chi vive in Lei ha salute, vita, sapienza, gloria, letizia e onore perché Ella è tutto questo, avendo le sue radici in Dio stesso, fondata come è sul monte di Dio per esserne il Tempio, amata più di ogni altra creatura dal Signore Altissimo, dovendo Essa in eterno essere la Madre dell'Uomo.
  Oh! parola poco meditata, meno ancora compresa, nella quale è compendiata tutta la figura di Maria. Cosa è Maria? È la Riparatrice. Ella annulla Eva. Ella riporta le cose sconvolte al punto dove erano quando le sconvolse il Serpente maligno ed Eva imprudente. L'angelo la saluta: "Ave". Si dice che Ave è il capovolgimento di Eva. Ma Ave (Javè) è ancora un'eco che ricorda il Nome Ss. di Dio, così come lo ricorda ancor più vivamente, e come te l'ho spiegato2, il nome del Verbo: Jeoscué.
   Nel tetragramma sacro che i figli del Popolo di Dio avevano formato per pronunciare nel segreto tempio dello spirito l'irripetibile Nome, già è "Ave". Il principio della parola con cui Dio mandò a far della Tutta Bella la Santa Madre e Corredentrice. Ave: quasi che, come realmente avvenne, Egli, annunciandosi col suo Nome, entrasse a farsi carne in un seno, nell'Unico Seno che poteva contenere l'Unico.
   Ave, Maria, Madre dell'Uomo come Eva, più di Eva, che hai riportato l'uomo, attraverso l'Uomo, alla sua Patria, alla sua eredità, alla sua figliolanza, alla sua Gioia.
   Ave, Maria, Seno di santità in cui è rideposto il seme della Specie, perché l'eterno Abramo abbia i figli di cui l'invidia satanica lo aveva fatto sterile.
   Ave, Maria, Madre Deipara del Primogenito eterno, Madre pietosa dell'Umanità, lavata nel tuo pianto e nel Sangue che è tuo sangue.
   Ave, Maria, Perla del Cielo, Luce di Stella, Bellezza soave, Pace di Dio.
   Ave, Maria piena di Grazia in cui è il Signore, mai divisa da Lui che in Te prende le sue delizie e i suoi riposi.
  Ave, Maria, Donna benedetta fra tutte le donne, amore vivente, fatta dall'Amore sposa all'Amore, Madre dell'Amore.
   In Te purezza, in Te pace, in Te sapienza, in Te ubbidienza, in Te umiltà, in Te perfette le tre e le quattro virtù...
   Maria, il Cielo delira d'amore nel contemplare Maria. Il suo canto aumenta sino a note incomparabili. Nessun mortale, per santo che sia, può comprendere cosa sia per tutto il Cielo Maria.
   Tutte le cose sono state fatte per il Verbo (il verbo è Gesù e anche Maria). Ma anche tutte le opere più grandi sono state fatte dall'Amore Eterno in Maria e per Maria. Perché Colui che è potente l'ha amata senza limite, e l'ama. E la Potenza di Dio sta nelle sue mani di Giglio purissimo per essere sparsa su chi a Lei ricorre.
  Ave! Ave! Ave! Maria!...».

venerdì 18 ottobre 2019

Conoscere la Sapienza e conoscere il Cristo

VALTORTA -  QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 374


2 agosto 1944

   Mentre faccio, dopo il ringraziamento della S. Comunione, le mie preghiere quotidiane, mi sento quella scossa, dirò così, quella sensazione speciale che provo quando Gesù mi vuole benedire con una sua grazia.
   Non riuscirò mai a spiegare bene questo fenomeno. È come un avvertimento che riceva tutto il mio io. Va all'anima, ma anche la materia lo sente. L'anima con una pace e una gioia subitanea e soprannaturale, che ancora non sa avere un nome ma che c'è; e il corpo con una specie di brivido che è nello stesso tempo calore e sensazione di benessere. Poi mi viene una specie di sonnolenza fisica, per cui desidero raccogliermi nel silenzio e nella solitudine e abbandonarmi sui guanciali come per sonno. Ma in realtà la mente e le facoltà spirituali sono più deste che mai e vedono e odono e godono vivendo intensamente. Si diminuiscono soltanto le forze fisiche come per languore o svenimento. Ma è una grande gioia!…
   Stamane sono sprofondata, e la vedo mentre scrivo, in cumuli di neve paradisiaca, come fossi su nevai sterminati e candidissimi contro l'azzurro più terso. La neve è data da falangi senza numero di angeli: perle vive trasvolanti sullo zaffiro del cielo. Angeli, angeli, angeli: luce e armonia. Luci rispetto alle quali sono opache e sporchi le perle più candide e i diamanti più tersi, armonie rispetto alle quali è discordante strepito il canto più perfetto e dolce della Terra.

   Cerchi festanti di luce nivea, cerchi intorno alla ancora più candida e splendida luce della beatissima Madre di Dio. Una luce così sfolgorante che vedo il volto di Maria e le sue mani come fossero dei soli irradianti raggi che sono quasi insostenibili all'occhio, così che il suo amato volto e le care mani congiunte in preghiera mi sono visibili a fatica dietro al velo di luce che da essi si irradia e che li circonda di un alone, di un impalpabile schermo di gloriosa luminosità. Ma pure, socchiudendo gli occhi dell'anima davanti a tanto fulgore, percepisco il sorriso beato di Maria, il suo dolce sguardo, umile e casto, amoroso tanto, degli occhi volti verso il basso, verso la povera Terra e la povera Maria che sono io, semivelati dalle ciglia. Uno sguardo di vergine umile e pudica, felice della sua festa ma non orgogliosa d'essa. Par che ripeta col suo atto il "Magnificat"1 che, se è riconoscimento dei doni di Dio a Lei, è soprattutto lode a Dio.
   Non vedo altro fuorché gli angeli festanti e la Mamma e Regina ritta sul suo splendido sostegno (luce, null'altro che luce che sale a fasciarla di luce) bellissima nel suo abito di perle rese stoffa, rese luce che è più forte di quella che la fascia, e nel suo viso, nelle sue mani che superano ogni luminosità tanto sono fulgenti.
   Che raggiare quello della Madre nostra! Ne ho l'anima fatta candida e fresca come fossi, come ho detto in principio, su sterminati nevai e non vedessi che immacolata neve contro un cielo terso e sotto un sole schietto.
 Oh! Paradiso!
   Ore l2. Capo 44° (se leggo bene) di Ezechiele.
   Dice Gesù:
   «L'Inviolata giubilante in Cielo, l'Arca chiusa in cui nulla e nessuno poté metter mano perché là dove è entrato Dio non è lecito entri uomo, o ciò che è annesso all'uomo colpevole in Adamo, tu l'hai vista. Per Lei la fine della vita fu Vita gloriosa e immediata, perché chi aveva portato il Vivente non poteva conoscere morte, e chi non fu profanata da umanità non poteva conoscere profanazione di sepolcro. Ma la grande Regina, che rapisce nella gioia dell'estasi gli angeli, ti dà un altro insegnamento.
   "Il principe stesso si metterà a sedere davanti ad essa per mangiare il suo pane davanti al Signore", è detto2.

Ezechiele 44,1-3

1 Mi condusse poi alla porta esterna del santuario dalla parte di oriente; essa era chiusa. 2 Mi disse: «Questa porta rimarrà chiusa: non verrà aperta, nessuno vi passerà, perché c'è passato il Signore, Dio d'Israele. Perciò resterà chiusa. 3 Ma il principe, il principe siederà in essa per cibarsi davanti al Signore; entrerà dal vestibolo della porta e di lì uscirà».

   Nessuno, per grande che sia, può venire nel mio cospetto se non riconosce in Maria, Porta chiusa da cui solo Dio è entrato, la Madre del Salvatore, la Madre-Vergine, la Madre divina.
   Io l'ho accumunata alla mia sorte di Vivente in Cielo per dirvi quale sia la sua gloria. Unicamente inferiore a Dio Ella è, perché da Lui creata. Ma la sua maternità e il suo dolore di Corredentrice la fanno eccelsa su ogni creatura. Porta di Dio, da Essa sgorga fede, speranza, carità; da Essa temperanza, giustizia, fortezza, prudenza; da Essa Grazia e grazie (i doni dello spirito santo, perchè Lei è l'incarnazione dello Spirito Santo); da Essa salute, da Essa vi viene il Dio fatto Carne.
   O Madre mia! Per il Pontefice e per l'ultimo dei credenti sei tu la santa Pisside in cui l'Eucarestia attende di essere data a chi crede. Tutte le grazie passano attraverso il tuo Corpo inviolato, attraverso il tuo Cuore immacolato. E misteri e verità, e sacramenti e doni, vengono conosciuti con vera sapienza e gustati con conoscenza e frutto solo da quelli che sanno chiederli a te, davanti a te. Tu schermo fra il Sole e le anime e fra le anime e Dio, per cui la Divinità può esser contemplata dall'uomo e l'umanità esser presentata al Perfetto. Tu, Madre che hai dato Dio all'uomo e dai l'uomo a Dio, istruendolo col tuo sorriso e col tuo amore.
   Mio piccolo Giovanni, vieni sempre a Me passando per Maria. È il segreto dei santi. E la Porta chiusa, che non si aprì né s'aprirà mai per violenza umana, la Porta santa per cui solo Dio può passare, si apre al tocco di amore di un figlio di Dio. Si apre benigna. Quanto più umile e semplice è quello spirito che a Lei si volge, e tanto più Ella si apre e vi accoglie. Vi accoglie per insegnarvi la Sapienza e l'Amore tenendovi fra le sue braccia di Madre.
   Vai, Giovanni, alla tua Maestra che ti ama.
   Questo, poi, per un'altra categoria di persone che non sanno essere dei "piccoli Giovanni" né voci di Cristo.
   "I leviti3 che si allontanarono da Me nello smarrimento dei figli di Israele… saranno custodi e portieri della casa… Invece i sacerdoti e i leviti figli di Sadoc… si accosteranno a Me e staranno alla mia presenza… La loro eredità sono Io".
   Non succede solo per i sacerdoti nel senso letterale della parola. Prendiamolo in significato più vasto: credenti, o cristiani, se più piace.
 Colui che crede serve Dio. Col Battesimo e la Confermazione vi siete impegnati a ciò. Con la fedeltà alle cerimonie volete dire a Dio, a voi, e al mondo, che volete servire Dio. Siete dunque, senza consacrazione, dei piccoli sacerdoti del vostro Dio. Dovreste esserlo perché Io vi chiamo tutti intorno a Me per amarmi e servirmi in questa vita e nella futura.
   Ma che avviene, dunque, allora? Perché vediamo dall'alto dei Cieli troppi leviti che nello smarrimento del mondo si allontanano da Me dietro a idoli che, se sono vergogna a ogni uomo che la Grazia ha fatto figlio di Dio, sono vergogna somma e profanazione per un consacrato? Perché vi sono altre religioni e altre cerimonie che non sono le mie per costoro? Perché hanno fatto dell'egoismo, del senso, del denaro, dell'ambizione le loro religioni? Perché servono la menzogna non avendo che una veste e non un'anima sacerdotale?
   E perché Io devo eleggere fra i figli di Sadoc coloro che sostituiscono le voci divenute mute e le lucerne spente? Per pietà del mondo. Sì. Per pietà.
   Ma guai a coloro che devo respingere al ruolo di custodi della mia Casa, non più di custodi! In ogni secolo vi furono gli eletti a sostituirli. Venuti da ogni professione e rango sociali. Portati dal turbine d'amore, salirono ben alti a purificarsi nel Fuoco e ad istruirsi con le voci della Fiamma divina. Hanno guardato un attimo Dio: con sincera, buona volontà di vederlo. E la visione li ha consacrati al suo servizio.
   Ed ecco che Io dico: "Essi staranno per la loro fedeltà alla mia presenza, i loro doni mi saranno graditi, Io li istruirò nella Verità, Io sarò la loro eredità".
   Oh! venite, o miei benedetti! Venite, voi a cui è stata rivelata la Verità non per opera di uomo ma per volere di Dio a premio del vostro amore fedele, voi a cui si può dire come dissi a Simone4: "Beati voi, perché non la carne né il sangue, ma il Padre mio che è nei Cieli vi ha dato di conoscere la Sapienza e conoscere il Cristo". Statemi sul cuore. Esso è pieno di ammaestramenti per voi e di amore infinito.»
   Gesù aggiunge: «Ho voluto farti un commento atto alle festività di oggi: S. Maria degli Angeli e S. A. M.5 de Liguori.»
           

   Magnificat, che è riportato in Luca 1, 46-55.
           
   2 è detto in Ezechiele 44, 3. Accanto ad Ore 12 la scrittrice annota: Capo 44° (se leggo bene) di Ezechiele. Infatti la scrittrice spesso sbagliava a leggere i numeri romani, come erano quelli dei capitoli nella Bibbia che lei usava.
           
   3 I leviti… è citazione da Ezechiele 44, 10-28.
           
   4 come dissi a Simone, in Matteo 16, 17.
           
   5 S.A.M. de Liguori sta per Sant'Alfonso Maria de Liguori, fondatore dei Redentoristi, dottore della Chiesa (1696-1787).

giovedì 17 ottobre 2019

Genesi spiegata come realmente è

Il Libro della Genesi è il primo dei cinque libri che compongono attualmente la parte della Bibbia chiamata «Pen­tateuco» (dal greco = "cinque astucci" o "contenitori") o, in ebraico, «Torah» (= “istruzione-insegnamento”), contenente l’indicazione del cammino da seguire per realiz-zare una vita pienamente riuscita perché vissuta in ascolto di Dio e del suo progetto, nella consapevolezza che la paro­la del Signore è lampada che illu-mina la strada da percorrere per essere felici (cfr. Sal 119,105; cfr. Sal 1,1). 


Il titolo italiano «Genesi» deriva dal greco «Ghènesis», che significa "Origine" o "Generazione". Il libro fu denominato così nelle antiche traduzioni greche e latine perché parla delle origini del mondo, dell’umanità, del popolo di Dio. Poiché gli ebrei sono soliti indicare i libri della Sacra Scrittura con le prime parole del testo biblico, ancora oggi essi chiamano quest'opera con l'espressione iniziale «Bereshit» (="In principio"). Questo è il «principio» della Rivelazione divina nelle Scritture, il «principio» della «Torah», il «principio» di quella serie di eventi che è la storia della salvezza, il «principio» del dialogo tra Dio e l'uomo che avrà il suo vertice in un altro «principio» parallelo a questo: «In principio era il Verbo» del vangelo di Giovanni (cfr. Gv 1,1). 

Chi sono i padri che hanno scritto i racconti della Genesi 

Come tutto il Pentateuco, la Genesi ha raggiunto la sua sistemazione attuale abbastanza tardi nel tempo, nei secoli V-IV a.C. in Giudea: primo destinatario fu il popolo d'Israele, in particolare quella parte tornata dall'esilio babilonese (post esilio). 

Secondo l'ipotesi oggi maggiormente condivisa dagli studiosi, la trama narrativa attuale non sarebbe stata scritta a tavolino da un unico autore, ma sarebbe il frutto di un lungo processo di formazione. Gli ebrei hanno continuamente riflettuto sulla propria origine, ricollegandola alla nascita del mondo ed alla loro storia, perciò il redattore finale avrebbe unito diverse tradizioni orali tramandate di generazione in generazione, cercando di armonizzarle. Nel testo esistono discontinuità, ripetizioni, differenza di stile e vocabolario, che permettono di individuare due gruppi di autori che hanno portato con sé la memoria di momenti storici e ambienti diversi del popolo d'Israele, convogliando riflessioni teologiche differenti sulla loro esperienza con Dio e sulla sua promessa di perenne fedeltà nell’amare e proteggere il suo popolo. 


Un primo gruppo è quello formato dai "sacerdoti" divenuti le guide spirituali della comunità ebraica in esilio nel VI secolo a.C. a Babilonia, in seguito alle deportazioni, dopo la distruzione di Gerusalemme per opera di Nabucodonosor nel 586 a.C.. Questa “redazione sacerdotale” [o "P" da «priester codex»= "codice dei preti"] desidera rispondere a precisi interro­gativi sorti nelle comunità ebraiche in esilio e/o in diaspora, oltre che in quelle residenti in Giudea, circa il volto del Dio in cui credono e circa la loro presenza nella storia dell'umanità. Essa si caratterizza per uno stile preciso e solenne, attento alle cronologie e alle genealogie. 

Un secondo gruppo è quello degli "anziani" o sapienti laici [redazione “Jahvista”o J poiché Dio vi è chiamato JHWH]. La narrazione Jahvista nasce da una riflessione sulla storia letta in modo profetico, preoccupandosi non tanto dei fatti di cronaca, quanto del loro significato per la fede in JHWH, Liberatore e Alleato del popolo ebraico. 

Entrambi i gruppi, alla luce della loro esperienza storica, desiderano offrire delle risposte adeguate agli inter­rogativi lasciati aperti dalla triste esperienza dell'esilio babilonese (587-538 a.C.) e a quelli suscitati dalla situazione di diaspora (abbandono della terra natale da parte dell’intero popolo ebraico disperso in varie parti del mondo) in cui vivevano le comunità ebraiche sotto l'impero persiano, circa la loro identità in quanto "popolo eletto dal Signore". 


Che cosa ci raccontano i nostri padri nella Genesi

L'opera si sviluppa come un grande dittico, formato da due grandi affreschi, e va compresa spostando continuamente lo sguardo dall'uno all'altro affresco, perché nessuna delle due parti è completa in se stessa. 

Nel primo affresco (1,1-11,26) ritroviamo la narrazione dell'origine del mondo, degli esseri viventi e, in ultimo, dell’umanità. 

Sono qui affrontati i grandi interrogativi sull'esistenza che gli uomini e le donne di ogni epoca storica si pongono riguardo alle origini dell'universo e dell'uomo (da dove veniamo?), alla propria identità (chi siamo?), al giusto rapporto con Dio, al problema del bene e del male, del dolore, della morte, alla crescita dell'umanità e al suo differenziarsi nello scorrere del tempo (verso dove andiamo?). Fin dall’inizio (cfr. 1,1) il testo collega la creazione a Dio, dal quale dipendono il tempo e il cosmo nelle sue parti, tutte definite "buone", ed è evidenziata la sua intenzione positiva nel creare il mondo e l'umanità (capitoli 1-2: P e J). Da subito il Signore si fa vicino all’uomo, prendendosi cura di lui in vari modi, proponendogli una relazione che andrà poi specificandosi come alleanza. 

L’uomo è descritto come creatura capace di porsi di fronte al suo Creatore, poiché dotato di una certa autonomia e di autodeterminazione. Attraverso una narrazione drammatica i "nostri padri narratori" ci portano a prendere coscienza della scelta dell'uomo-donna di sempre di non accogliere la Parola di Dio come criterio delle proprie scelte introducendo così il male nelle relazioni tra marito e moglie (capitolo 3: J), tra fratelli (4,1-16: J) e nella società (4,17-24: J), male che pur non fermando del tutto la benedizione di Dio (capitolo 5: P) può portare l'umanità all'autodistruzione con il diluvio (capitoli 6-9: J e P). Dio però riprende in mano la storia umana impegnandosi a proteggere la vita delle sue creature (9,1-17: P) che si espandono su tutta la terra (capitoli 10 e 11,10-26: J e P) nonostante la loro riluttanza (11,1-9: J). 

Nel secondo affresco (11,27-50,26), più vasto, il mondo e la storia dei primi esseri umani sono lo sfondo su cui prende rilievo il quadro della nascita del popolo ebraico e della sua missione iniziata fin dal tempo dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe. Il racconto si conclude con la migrazione in Egitto di Giacobbe e della sua famiglia. 

In ogni momento, il protagonista delle vicende è sempre e soltanto Dio che, con la sua presenza e la sua parola, proietta una luce di speranza anche sulle situazioni più angosciose.


Come leggere la Genesi


Per secoli quest'opera è stata letta in modo letterale, un po’ ingenuo, senza porsi domande di sorta, ma accettando come un dato pacifico l’esistenza del giardino di Eden, il fatto che i serpenti parlino, la raffigurazione di Dio che passeggia nel giardino cercando un po’ di fresco all’imbrunire, ecc. Da tempo è stato invece riconosciuto che non è possibile avvicinarsi alla lettura della Genesi senza tener conto della mentalità e del tempo in cui è stata scritta; affrontandola con i parametri di pensiero odierni si corre il rischio di non comprenderne affatto il messaggio ed il contenuto profondo.


La Genesi appartiene a un genere letterario particolare, comune ad altri racconti simili che provengono dal Vicino Oriente antico: il mito. Come tutti i libri sacri, essa non vuole avere il carattere di un testo storico o scientifico, almeno secondo la concezione moderna del termine, e non deve essere letta come se narrasse fatti avvenuti in un lontano passato e in un determinato luogo geografico. Ciò che interessa all’autore sacro non è dire "come" Dio abbia creato gli animali o l’umanità, bensì manifestare l’amore di Dio, indicando qual è il senso del Creato e dell’uomo in relazione con il Creatore, ed offrire una risposta religiosa ad alcune delle vicende fondamentali che l'uomo incontra vivendo la propria vita.

Il racconto è comprensibile solamente a patto di tenere ben presenti alcuni dati: Dio c'è, opera - e operando si manifesta - e desidera comunicare ancora oggi il suo messaggio at­traverso ciò che si sta leggendo.

Accostare alla lettura della Genesi an­che quella di altre pagine bibliche può risultare utile per familiarizzarsi con la parola di Dio e conoscerla sempre più.

Ecco uno schema del libro della Genesi:
Creazione e riposo divino (1,1-2,4a)
Gli inizi dell'umanità (2,4b-25)
Le scelte dell'umanità (3,1-24)
Il giardino e la colpa (2,4b-3,24)
Caino uccide Abele (4,1-16)
La discendenza di Caino (4,17-24)
L'umanità "benedetta" continua il suo cammino (4,25-5,32)
Noè e il diluvio (6,1-9,29)
L'umanità dopo il diluvio (10,1-11,26)
Abramo (11,27-25,18)
Isacco e i suoi figli Esaù e Giacobbe (25,19-37,1)
Giuseppe e i suoi fratelli (37,2-50,26).



CREAZIONE E RIPOSO DIVINO (1,1-2,4a)

La prima parte della Genesi (1,1-2,4a) è attribuita alla tradizione sacerdotale (P). Con un ritmo cadenzato e ripetitivo e con il tono solenne tipico delle celebrazioni cultuali, l’autore di questo poema liturgico - vero "inno a Dio crea­tore" - desidera proporre una catechesi meditativa sulla creazione, perciò non si preoccupa tanto di rispondere alle domande sul "come è successo", "da quando esiste", "da dove proviene" l’universo, quanto piuttosto di interrogarsi sul senso della sua presenza alla luce dell'atto di fede nel Signore Liberatore e Creatore; egli desidera affermare che all'inizio di tutto c'è Dio con la sua azione creatrice e che la creazione non è il risultato di una lotta tra gli dèi, come nei miti dell'antico Vicino Oriente, bensì il frutto della decisione e dell'azione divina. Il mondo dipende da Dio e nel suo piano originario esso è armonico, ordinato, bello e perfetto.

La creazione è qualcosa di inedito, insolito, insperato, meraviglioso. La logica dell’intervento divino è quella tipica dell’artigiano, che dapprima prepara l’ambiente e poi lo adorna, migliorando ulteriormente la propria opera. Inizialmente il Creatore entra in azione mettendo ordine in quelle che, secondo la concezione tipica del mondo semitico di allora, erano le tre parti principali del cosmo: il cielo, le acque, la terra. Le tre opere seguenti sono un "ornamento" degli elementi prodotti nelle prime; ciò che è stato creato nei primi tre gior­ni trova il corrispondente nei tre giorni successivi. Così la luce fatta esistere al primo giorno è posta in relazione con quanto offre luce al quarto giorno (sole, luna, stelle, astri destinati a riflettere la luce e a indicare le stagioni e le feste), il firma­mento, che al secondo giorno divide le acque supe­riori da quelle inferiori, al quinto giorno è popolato dagli «uccelli del cielo» mentre i pesci riempiono le acque inferiori; infine al terzo giorno viene fatta emergere la terra, sulla quale crescono le erbe e gli alberi, e al sesto giorno gli animali e gli esseri umani vi prendono dimora e si nutrono della sua vegetazione.

Tutto si snoda attraverso l'intrec­cio di due schemi: quello temporale, dei "sette giorni" (6 volte «E fu sera e fu mattina») e quello operativo dell'«agire» (10 volte si adopera il verbo «fare») e, soprat­tutto, del «parlare» di Dio (10 volte l'espressione: «Dio disse»).

Ogni atto della creazione presenta quasi sem­pre la stessa struttura con il ripetersi di elementi caratteristici:
Introduzione del comandoPer dieci volte si ripete: «E Dio disse. Ogni cosa creata è frutto del "parlare" di Dio, perciò il creato è pieno delle sue parole che, insieme, formano un discorso, un messaggio divino. Il dieci è un numero significativo, perché richiama immediatamente alla mente le dieci parole del Decalogo, i "dieci comandamenti" con i quali il Signore, sul Sinai, ha creato Israele come "popolo dell'alleanza" (cfr. Es 20,1-17), dopo averlo liberato dal caos della schiavitù d'Egitto. Come il mondo esiste attraverso quelle che gli ebrei definiscono "le dieci parole di Dio", così attraverso l’obbedienza alle dieci parole della Legge l’essere umano può davvero esistere come uomo.
Comando: «Sia-siano...». Ogni creatura esiste "per chiamata" divina e non semplicemente per un processo di autoesistenza. Il Signore è diret­tamente e personalmente coinvolto nell'atto creativo come afferma il Salmo 8 che parla di «opere delle tue dita» (cfr.    Sal 8,4). Nella Bibbia il verbo «bara'» (="creare, fare senza avere mezzi materiali") è utilizzato 49 volte ed ha sempre Dio come soggetto. Creare è qualcosa che riesce facile al Signore perché proviene dalla sua identità più profonda di essere "misericordia" («chesed») e "tenerezza" («rachamim»): l'esservi fedele è la sua giustizia («zedaqah») che fa esistere tutte le cose e rende possibile la vita dell'umanità.
La creazione è il passaggio dal caos iniziale confuso e disordinato (1,1-2) a un mondo "buono/bello" nel quale è possibile la vita di tutti gli esseri viventi. Il Creatore chiama all'esistenza tutti gli esseri secondo un progetto ben organizzato. Le opere si susseguono in un ordine armonioso di dignità crescente, andando da ciò che è più essenziale e meno differenziato (la luce) fino a ciò che è più perfetto: l’essere umano creato al sesto giorno (1,26-28).
L'atto della creazione è un «fare separando» («badal»): Dio separa la luce dalle tenebre (1,3-5), le acque «che sono sopra il firmamento» da quelle che si trovano sotto (1,6-8). Quindi fa emergere la terra dal mare (perciò "li separa"; 1,9-10) e stabilisce che ogni vegetale faccia il seme «secondo la propria specie» (1,11-13) e che gli animali generino ognuno «secondo la propria specie» (1,20-25).
"Separare" serve a differenziare ogni realtà in modo che sia distinta e gerarchizzata rispetto alle altre per rendere possibile la relazione tra gli esseri creati, nel rispetto di un disegno divino che prevede la differenza senza violenza e la gerarchia senza sopraffazione.
Esecuzione del comando: «E così fu/avvenne», quale constatazione che la parola del Signore ha una efficacia reale non solo nella storia umana (come per i profeti) ma anche nell'ambito della creazione.
Nome e/o benedizioneDopo averle create, Dio chiama per nome le cose (altro agire della Parola di Dio!), un gesto questo che è segno di potere, di signoria, di dominio. Il nome, nella mentalità biblica, non è semplicemente un modo convenzionale con cui si indica una realtà, ma ne rivela il senso profondo; "chiamare qualche cosa per nome" vuol dire conoscerne il segreto.
La benedizione (grande e definitiva "parola" della creazione di Dio) compare solo negli ultimi tre giorni della creazione, cioè quando comincia la vita con la comparsa di pesci, uccelli, animali e dell'essere umano (gli antichi non consideravano i vegetali come esseri viventi). Dio benedice gli esseri creati (verbo «barak»), per immettere in essi una forza salutare positiva che li fa esistere, assicura consistenza e dona vita e fecondità. Non si tratta semplicemente di un augurio che porta a "dire bene” di una realtà, quanto piuttosto di un impegno da parte di Dio a garantire crescita, fecondità, ben-essere e bene-stare. È l'equivalente di «shalom»= “pace”, inteso come prosperità, salute, pienezza di vita.
Valutazione o giudizio sulla realtà creata. Alla fine di ogni giorno, Dio si mette in contemplazione di quanto ha fatto («vide») e se ne compiace. Siamo di fronte al primo atto d'amore del Creatore verso le sue creature. Sette volte il testo ripete: «E Dio vide che era cosa buona/bella» («tob»), specificando nell'ulti­ma (l'essere umano) che è «cosa molto buona/bella». Lo sguardo divino non è quello di qualcuno preoccupato di sfruttare ciò che vede, quanto piuttosto quello di chi gusta la pre­senza della realtà creata e ne riconosce la intrinseca armonia. Ogni cosa creata reca al suo Creatore gioia e soddisfazione perché è ben riuscita e al posto giusto, adatta allo scopo, corrispondente al suo progetto.
Conclusione cronologica. La creazione non si colloca al di fuori del tempo e dello spazio, ma si svolge nell’arco di sette giorni - una settimana - che per gli ebrei è la struttura base del tempo. Al termine di ogni giorno troviamo l'espressione: «e fu sera e fu mattina», tipica del modo di pensare ebraico. Per gli ebrei, infatti, il giorno inizia alla sera - verso le nostre ore 18.00 - al tramonto del sole, quando si vedono in cielo tre stelle; essi procedono cioè dal buio verso la luce.
Per poter esistere, il creato e l'umani­tà devono essere collocati nel tempo e nella storia. Per iniziativa libera e gratuita, Dio dà origine alla dimensione temporale orientata a una fine, al giorno settimo, il sabato eterno.

«In principio» (1,1-2) 
Capitolo 1
1In principio Dio creò il cielo e la terra.
La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

La narrazione si apre con una breve introduzione. L'intervento creatore di Dio, dal quale ha origine tutto l’universo avviene «in principio» (in ebraico: «bereshît»; in greco: «en archêi»), cioè nel primo momento del tempo e della storia (1,1).
L'universo - indicato dall'espressione «cielo e terra» - si presenta come un luogo in cui Dio sta per mettere ordine attraverso la sua azione creatrice. L'idea della creazione delle cose dal nulla è espressa attraverso vari termini (1,2). Prima che il Signore inizi la sua opera, la terra è un’entità «informe e deserta», cioè spoglia, disordinata e confusa, qualcosa di simile al "caos" inteso come com­pleta assenza di vita e di fertilità, come solitudine estrema, in attesa dell'azione divina. Attorno vi è l’«abisso» («tehom»), immaginato dall'autore sacerdotale come una massa d'acqua, un “oceano”, che si richiama ai miti babilonesi, dove la regina dell'oceano e dell'abisso ­che minacciava di distruggere il creato­ era chiamata «Tiamat», termine affine a quello biblico. Il tutto è immerso nelle «tenebre», negazione della luce e quindi della vita.
Sull'abisso aleggia lo «spirito di Dio» simile a un "respiro" o ad un "vento" che soffia sulla superficie delle acque, contemporaneamente invisibile e potente, legato alla vita e all'energia che rende vivi gli esseri, pronto a en­trare in azione mediante la parola creatrice. Il Salmo 33 afferma: «dalla parola («dabar») del Signore furono fatti i cieli, dal soffio («rûah») della sua bocca ogni loro schiera» (cfr.          Sal 33,6). La tradizione giudeo-cristiana ha identifi­cato la «rûah ’elohîm» con la "sapienza di Dio", principio vitale della creazionee alcuni Padri della Chiesa vi hanno individuato lo Spirito Santo.

La creazione (1,3-2,3)
3Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. 5Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo.

Tutto comincia dall'iniziativa di Dio. Il vuoto del deserto, della tenebra e dell'oceano-abisso è squarciato dalla sua parola («dabar») creatrice che dice e fa, che domina le realtà più negative, come le tenebre, imponendo loro un limite: ed ecco sbocciare la luce, che è presentata come una semplice "creatura" di Dio (1,4) e non una divinità da adorare come facevano molte popolazioni antiche. Dio la contempla e, come un artista, ne è soddisfatto: «vide che era cosa buona» (un unico termine ebraico, «tob», indica "bontà" e "bellezza").
La presenza della luce rende possibile ogni altra azione, poiché è condizione necessaria per la vita. Conseguenza del suo esistere è la possibilità di distinguere tra luce/giorno e tenebre/notte (1,5), permettendo di orien­tarsi nel tempo e nello spazio e di dare un ritmo re­golare alla settimana e al calendario. 
Dio disse: "Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque". 7Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno

La seconda "separazione" riguarda l’acqua (1,6-8). Secondo la mentalità dell'epoca, il cielo (o «firmamento») è immaginato come una lamina solida e trasparente a forma di cupola, che sostiene le acque di «sopra» (che scendono sulla terra sotto forma di pioggia pas­sando per alcune "finestre" o "cateratte") da quelle di «sotto» che zampillano dalla terra con le sorgenti e formano i fiumi, il mare e gli oceani o abissi. 
9Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l'asciutto". E così avvenne. 10 Dio chiamò l'asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona. 
11Dio disse: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie". E così avvenne. 12E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. 13E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
È all'interno delle acque di «sotto» che, il terzo giorno, Dio opera un'ulteriore di­stinzione ponendo una frontiera invalicabile al mare in modo che appaia la terra asciutta, quasi una grande isola circondata dall'acqua, capace di produrre e di essere abitata (1,9-10).
La costituzione del mare e dell'«asciutto» determina le condizioni finali per l'esistenza dei vegetali (1,11-12) che sono pre­sentati in progres-sione, secondo l'altezza: «germogli», erbe con seme, «alberi da frutto». Tutti hanno una propria capacità di ripro­dursi «secondo la loro specie», quindi senza confu­sione, con perfetta autonomia, regolarità e armonia. L'autore sacro evidenzia che la fertilità del terreno non di­pende dagli dèi della fecondità ma è un dono affidato da Dio alla stessa terra, la quale possiede perciò una propria autonomia produttiva.
14 Dio disse: "Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni 15e siano fonti di luce nel firmamento del cielo per illuminare la terra". E così avvenne.
16  E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona. 19E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
Dio con­tinua la sua opera creatrice facendo in modo che do­po la separazione ci sia l'ornamento. Così, al quarto giorno colloca «nel firmamento» le «fonti di luce» (1,14), indispensabili per determinare le celebrazioni delle feste secondo le fasi lunari, per far funzionare la successione dei giorni e delle notti e per indicare gli anni secondo il ciclo so­lare (1,15).
L'autore parla del sole («luce mag­giore») e della luna («luce minore») come di semplici "riflettori", dei quali non sono detti i nomi propri per evitare il rischio - molto attuale nelle mitologie dell’Antico Oriente, specialmente in ambiente babilonese - che siano considerati come divinità. Questi astri non sono dèi da adorare: sono solo delle "luci" utili all'uomo, sono "segni" che indicano la presenza del Dio Creatore, proprio come le lampade che nel tempio di Gerusalemme illuminavano l'area sacra e richia­mavano la presenza del Signore (cfr. Es 25,6; 35,8; Lv 24,2).
20Dio disse: "Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo". 21Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona. 22 Dio li benedisse: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra". 23E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
Al quinto giorno nasce la vita sulla terra. Il cielo è abitato dagli «uccelli alati» (1,21b), mentre le acque vengono popolate dai pesci e dai «grandi mostri marini» (1,2la). Questi ultimi sono esseri inventati dalla fantasia delle mitologie antiche per personificare le forze cosmiche del male che nell'immaginario comune abitavano nel mare. Per un ebreo, abituato al deserto, la grande distesa del mare rappre-sentava il pericolo e il mistero; era il "regno del male". Ma fin dall'inizio la Bibbia tiene a precisare che tutto ciò che è creato è alimentato dal respiro vitale del Creatore; anche le realtà che sembrano più terribili, misteriose e negative sono piene della vita che viene da Dio.
Tutti gli esseri del cielo e del mare ricevono dal Signore la benedizione (1,22), che si manifesta in modo efficace come fe­condità ed è presentata come un comando di riempire gli spazi loro riservati.
24Dio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie". E così avvenne. 25Dio fece gli animali selvatici, secondo la loro specie, il bestiame, secondo la propria specie, e tutti i rettili del suolo, secondo la loro specie. Dio vide che era cosa buona.
Infine, nella prima opera del sesto giorno (1,24-25), la terra si popola di bestiame, rettili e animali selvatici, che sono contem­poraneamente prodotti dalla terra stessa (1,24) e fatti da Dio (1,25); questo per indicare che appartengono sì alla ter­ra ma sono comunque creature del Signore.
«Facciamo l'umanità!» (1,26-31)


26 Dio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra".
27 E Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò:
maschio e femmina li creò.
28Dio li benedisse e Dio disse loro:
"Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra e soggiogatela,
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente che striscia sulla terra".
29Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro cibo. 30A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde". E così avvenne. 31Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.

Siamo al culmine della creazione, a quell'atto che la conclude "in bellezza", descritto dall’autore sacerdo­tale in un modo speciale, con più dettagli rispetto alle azioni precedenti. Il testo è suddiviso in quattro piccole unità dall'agire specifico di Dio [tre volte “Dio disse” (1,26.28.29) e una “Dio vide” (1,31)].
L'atto creazionale è preceduto da un soliloquio divino aperto da un plurale: «Facciamo l'umanità» (1,26a). Non si tratta di un plurale “maiestatico”, cioè di solennità, né un'allusione alla Trinità come volevano i Padri della Chiesa (la Trinità sarà rivelata solo nel Nuovo Testamento). Questo è invece un "plurale consultivo-deliberativo" (cfr. anche 3,22 e 11,7): il Creatore dialoga con se stesso, con la profondità del suo essere, (Lo Spirito Santo) come fa una persona quando sta per prendere una decisione importante. Ciò indica che l'intenzione di creare l’essere umano nasce da una matura riflessione ed esprime il preciso desiderio divino di porre un’attenzione particolare all'umanità quale compimento della creazione; per questo nessun essere umano è frutto del caso e ognuno ha un valore immenso e insostituibile.
In ebraico esistono diversi termini per designare l'«uomo»; qui è usato «adam», un nome collettivo che indica l'intera umanità. L'importanza dell'essere umano è data dal fatto che egli non è creato «secondo la specie» com'è avvenuto per la flora (1,12-13), la fauna marina (1,21) e terrestre (1,24-25), bensì a «immagine» e «somiglianza» di Dio (1,26b). Nel mondo antico, il re era solito collocare nelle regioni più lontane del suo regno una statua che lo rappresentasse e ricordasse a tutti chi era il sovrano; per il nostro autore ogni «adam» (maschio o femmina) è «immagine», vale a dire "copia conforme l'originale", per rappresen-tare visivamente Dio in terra (il Padre e lo Spirito Santo). Pur essendo fatto «poco meno di un dio» (cfr. Sal 8,6), ciascun essere umano è solo “somigliante” a Dio, cioè  ha “forma analoga" ma non coincidente in tutto e per tutto al suo Creatore; l'uomo non si dà la vita da se stesso, perché esiste dipendendo dall'originale, è creatura che deve il senso profondo del­la propria identità a Dio e al suo Spirito Santo.
L'umanità è distinta nella bi­polarità sessuale di «maschio e femmina» (1,27a): si noti lo slittamento dal singolare («lo creò») al plurale («li creò»). I due sessi sono creati contemporaneamente, in assoluta parità, poiché  ambedue sono dotati della medesima dignità di «immagine di Dio». La differenza sessuale non comporta separazione né contrappo-sizione, quanto piuttosto distinzione nella co­munione reciproca. Quando diciamo che l'uomo è «immagine» di Dio dobbiamo pensare che il Signore si rispecchi in­sieme nel maschile e nel femminile, nell'identità-diver­sità, nella fecondità, nella socialità, nel progetto. D’altronde la tradizione biblica, oltre ai tratti maschili conosciuti, attribuisce al Signore anche quelli tipicamente femminili (cfr. Is 42,14: «partoriente»; cfr. Is 49,13-15 e 66,12-13: "rapporto madre-figlio"; cfr. Os 2 e 11, cfr. Ger 31,20: "tenerezza materna"). Dato che tutta l’infinita ricchezza divina non avrebbe potuto essere contenuta in un solo essere, Dio ha posto alcune sue caratteristiche nel maschio ed altre, complementari, nella femmina, in modo che né il maschio da solo e né la femmina da sola siano immagine divina, ma lo sia la loro unione. Uomini e donne possono essere "icona di Dio" sulla terra solo "insie­me", nel dialogo e nella comu­nione, nella misura in cui entrano in relazione armoniosa tra loro per formare ancora un nuovo «adam».
Ogni particella del creato quando osserva l'amore che vi è tra un uomo e una donna sa che il volto del Signore è presente, che la sua «immagine» continua a riempire la terra.
All'uomo-donna il Creatore concede per prima cosa la possibilità di parteci­pare della sua stessa vita e la capacità di trasmetterla (1,28a). Non si tratta, però, di un comando da eseguire in modo meccanico, quanto piuttosto di un dono affi­dato all'ascolto libero dell’umanità. Il testo, infatti, non si esprime con un "Dio disse e fu" (cfr. 1,3) e neppure con "Dio li benedisse e così avvenne" (cfr. 1,22; 8,15; 9,1), quanto piuttosto con «Dio li benedisse e disse loro».
Ogni essere umano (maschio o femmina che sia) potrà esercitare, a nome del Creatore, una sovranità limitata sulla terra, espressa con due verbi molto forti: "soggiogare" e "dominare" (1,28b). Il primo («kabash») indica il "sot­tomettere” una regione con una occupazione militare e quindi stabilirvi la propria sovranità; il secondo («radah») richiama l'azione del "calcare pesantemente il piede su qualcosa". Queste sono azioni tipi­che di un re e vengono estese ad “ogni” persona umana: perciò "icona della divinità" non è più il solo sovrano - come accadeva presso le popolazioni mediorientali antiche - bensì ogni essere umano che ha una responsabilità enorme da non esercitarsi però in modo autonomo e al di fuori di ogni controllo. Ciascun «adam» è invitato a imitare Dio nel modo di "do­minare" e "soggiogare" la terra: non può essere né tiranno né conquistatorequanto piuttosto un "re pacifico e non violento”, interessato alla vita, al benessere e alla giustizia su tutto il creato (cfr. Sal 72).
L'ultima parola del Signore (1,29-30), che non crea niente di nuovo, specifica solo la preoccupazione che ogni essere vivente abbia di che nu­trirsi, ma nel rispetto della vita e senza violenza reciproca, per­ché Dio è colui che offre a tutti il cibo necessario «a tempo opportuno» (cfr. Sal 104,27). Non siamo di fron­te a una semplice norma vegetariana data all'umanità (anche se così può essere intesa) e smentita successivamente di fronte alla violenza (cfr. 9,3-4), quanto piuttosto a un progetto della provvidenza di Dio che assegna a ogni essere vivente un luogo per vivere.
Giunto alla sera del sesto giorno, Dio contempla il suo capolavoro e vede che l'essere umano non è soltanto «buono/bello», come le altre creature, ma «molto buono/bello» (1,31).
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Ora voglio riportare una interpretazione tratta da una traduzione fatta in modo letterale da una Lectio biblica su Genesi 1,26-28 Convegno Nazionale CEI Pastorale Familiare Nocera Umbra, 26 aprile 2014  Mario Russotto Vescovo di Caltanissetta:

Genesi 1,26 recita: «Facciamo adam a nostra immagine e a nostra somiglianza ... e domini sui pesci del mare». Traducendo in italiano il termine Adam con “uomo”, il traduttore ha dovuto mettere il verbo “dominare” al singolare, mentre in ebraico è plurale. E questo perché adam in ebraico è un singolare collettivo, che va meglio tradotto con "umanità"; e questa umanità è duale, è maschio e femmina. E allora dobbiamo letteralmente tradurre così: «Facciamo umanità a nostra immagine e a nostra somiglianza… e dominino». 

In Genesi 1,27 leggiamo: «Dio creò Adam a sua immagine; a immagine di Dio creò adam, maschio e femmina li creò». Secondo questo primo racconto di Genesi, l’umanità maschio e femmina è il culmine e il capolavoro della creazione, e riceve da Dio il compito di "dominare", cioè di portare a perfezione il creato. Senza umanità maschio e femmina non c’è “cosmo”, non c’è creazione ordinata, perché adam maschio e femmina, che odora di terra e di rosso sangue è “infuocato” (è il significato ebraico di ish-ishah), è custode e liturgo del creato.

 Adam maschio e femmina è selem e demut, che noi traduciamo con “immagine e somiglianza”. Selem e demut in ebraico indicano qualcosa di molto simile all'originale e, nello stesso tempo, assai distante e differente dall’originale. Pensiamo, 2 ad esempio, alla statua del re posta al centro della città perché lo rappresenti. La statua richiama l’immagine del re, ma non è il re! È un po’ come una mia foto: io la guardo e dico: «Questo sono io», ma non intendo dire che io sono un pezzo di carta. Quindi in adam maschio e femmina c’è qualcosa di molto simile a Dio Creatore che, nello stesso tempo, è distinzione e differenza.

 Adam è maschio e femmina, in ebraico zakar e neke bah, termini che letteralmente andrebbero tradotti con “puntuto e svuotata”, oppure “pene e vagina”. L’umanità, dunque, è immagine di Dio in quanto duale. E questa dualità si evidenzia in quanto adam-umanità è puntuto e svuotata. Zakar e neke bah si riferiscono ai genitali che costituiscono e distinguono adam-umanità in maschio e femmina. 



Il riposo sabbatico (2,1-4a)

Capitolo 2

1Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando.
4aQueste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
Il «settimo giorno» è quello più importante; Dio cessa ogni lavoro (come si ripete per due volte; 2,2-3) e si ferma a contemplare l'opera compiuta (2,1-3). Diversamente dai precedenti, il racconto del settimo giorno non è chiuso dal ritornello «E fu sera e fu mattina», perché siamo entrati nel "tem­po eterno del Signore", il tempo «benedetto e consacrato» cui Dio ritorna dopo aver operato nel tempo e nello spazio "profani".
Il «settimo giorno» nella settimana ebraica corrisponde al "sabato", in ebraico «Shabbat», termine che rimanda allusivamente sia al vocabolo “settimo” sia al verbo che significa “riposare” o "astenersi".
Possiamo richiamare i seguenti "significati del «settimo giorno»:
È il giorno della perfezione
Il “sette" è segno di pienezza e perfezione. Il settimo giorno rappresenta il corona­mento, la meta ultima dei sei precedenti ed è il giorno in cui il mondo creato raggiunge la sua pienezza armoni­ca e totale. 
Anche l'uomo, creato nel sesto giorno, entrando come il suo Creatore nel settimo giorno, può partecipare della perfezione di Dio.
È il giorno del riposo.
Dio opera l'ultima creazione, astenendosi dal creare e ri­posando (2,2). Si tratta di una sua iniziativa con la quale manifesta la propria libertà e autonomia da ciò che ha creato; egli non dipende dal "fare-creare" e non ne è schiavo. E poiché ogni persona umana è creata «a immagine e somiglianza» di Dio, ognuno è invitato a imitare il Creatore, indipendente­mente dalla propria essenza e condizione sociale: cessare di lavorare il settimo giorno è non solo di­chiarare l'autonomia da ciò che si produce, ma anche riconoscere di non essere "padrone assoluto" del creato.
È il giorno della benedizione e della liberazione
In questo tempo particolare di «shabbat», Dio si riposa "benedicendo" (2,3). Aven­do a che fare con la fecondità e la vita, la benedizione divina si manifesta come "ri-creazione della vita" a contatto con la sua fonte e come "liberazione" della stessa vita da tutto ciò che la umilia, la mortifica e le impedisce di essere piena di senso. È in questa direzio-ne che porta il "comandamento del sabato": nel libro dell'Esodo è "ricordo-memoriale" della creazione della propria vita e di quella del mondo (cfr. Es 20,8-11; cfr. Lv 25,1-7), nel Deuteronomio è "ricordo-me­moriale" della liberazione dalla schiavitù d'Egitto (cfr. Dt 5,12-15).
È il giorno consacrato da/a Dio
Il verbo ebraico «qadasb» (=“consacrare, santificare") significa anche “appartenere”: il  sabato non è un tempo di proprietà della creatura bensì del Creatore. Lo stesso verbo significa anche "separare": al termine della creazione - che è stata soprattutto un'opera di "separazione" - Dio "separa" il settimo giorno dagli altri sei, lo mette da parte lo riserva per sé.
Questo giorno è sottratto alla gestione dell'uomo e della donna, che non possono sfruttarlo a piacimento, anzi, sono invitati a entrare nel tempo di Dio, nel suo orizzonte, nella sua comunione e intimità.
«Nel settimo giorno farai riposo» (cfr. Es 23,12)
Nella Bibbia il riposo sabbatico è motivato come momento per "riprendere fiato" dopo la fatica, come affermazione del primato della persona sulle cose da fare e come "memoriale" del dono della libertà, dell'allean­za con Dio e del dono della vita.
La tradizione ebraica considera il sabato come segno concreto dell'amore di Dio per il suo popolo. Il termine ebraico «shabbat»,  è femminile e il "set­timo giorno" viene inteso come la sposa del mondo intero e di Israele; il creato viene immaginato come una grande “tenda nuziale" ornata e abbellita, nella quale (il giorno di sabato) è introdotta la sposa. Dal canto suo, Israele è stato destinato a essere il compagno del sa­bato; per questo lo accoglie con gli atteggiamenti di colui che non vede l'ora di incon­trare la persona amata.
In questo giorno gli ebrei - i nostri "fratelli maggiori" - de­vono astenersi da ogni lavoro che dia loro la sensa­zione di avere in mano il mondo o li porti a modifi­care il normale corso della natura e dell'ordine socia­le. Cucinare, sistemare un oggetto, accendere la luce, usare mezzi di trasporto, arare un campo, ecc. sono atti che incidono sul normale andamento della natura, perciò di sabato vengono sospesi. Usando in qualsiasi modo il denaro si alterano i rapporti sociali perché alcuni si arricchiscono, altri impoveriscono, perciò sono sospese anche le attività commerciali ed economiche.
Il sabato è il giorno in cui si capovolgono i valori e si può privilegiare l'essere sull'avere: regnano la pace e la tranquillità, si ha tempo per la famiglia, gli amici, lo studio, la preghiera. Sospendendo il tempo come tempo della produzione (per lavorare) e della fruizione (per soddisfare i bisogni), questo giorno diventa "tempo per l'uomo",  tempo dell'accoglienza, dell'ospitali­tà, della fraternità, della solidarietà e del perdono. È il tempo di rimettere gratuita­mente in circolazione, a favore degli altri, quanto si è ricevuto dalla gratuità di Dio, il tempo delle "opere di misericordia" attraverso le quali l'amore del Signore entra nel mondo e si realizza il suo regno.
Il senso del "settimo giorno"
Celebrare il giorno del Signore significa partecipare alla libertà, al riposo e quindi alla pace di Dio, significa celebrare la nuova alleanza, significa contemporaneamente anticipare il mondo nuovo, in cui non ci saranno più schiavi né padroni, ma solo liberi figli di Dio.
Il settimo giorno (sabato ebraico) fornisce all'uomo immerso nel tempo un assaggio di eternità. Non per niente la Lettera agli Ebrei pro­mette a coloro che aderiscono alla fede in Gesù di Nazaret l'entrata nel riposo di Dio (Eb 4,1-5), il sabato eterno.
Vivendo il "riposo sabbatico" (quello domenicale per un cristiano) come "espropriazione" di sé e come "limite" della propria esistenza creaturale, ogni persona entra nel tempo di Dio, accetta la sua signoria sul tempo e sul creato e si mette nella relazione di­retta con l'Eterno. Che senso ha, per un cristia­no, ridurre la domenica a un semplice precetto da "osserva­re", senza entrare nel "tempo di Dio", che è "tempo di benedizione"? L'uomo che nel giorno di festa celebra la liturgia, vive la comunione con Dio e si stacca dalle cose, è come se gustasse già l'eternità.
Dire "riposo" significa dire felicità e pace, silenzio e armonia, quiete; indica la condizione in cui non si è turbati da dubbio e difficoltà, da con­tesa e rivalità, da lotta e paura. Il riposo non è tempo da consumare come divertimento fine a se stesso perché rischia di essere ul­teriore sfruttamento di sé e del creato; tantomeno deve essere inteso tempo di semplice ricarica per poter lavorare poi ancor di più, perché in questo caso saremmo schiavi della mentalità del profitto. È, invece, «lavoro» di ricreazione della vita a contatto con la sua sorgente, Dio. Solo tale motivazione permette di vivere bene il riposo del settimo giorno e di dar senso allo stesso lavoro settimanale. Riposare è passare da un tipo di "lavoro" a un altro, inteso come "culto, servizio reso a Dio e a se stessi. Lo si pratica "entrando" nel “sabato” per ri-creare il tessuto interiore della propria vita e per accettarsi come creature limitate e bisognose della benedizione del Creatore.
Ogni credente dovrebbe educarsi a vivere il riposo settimanale come "tempo di Dio" e "tempo per l'uomo", ed educare gli altri a fare altrettanto. Oggi viviamo in una cultura consumistico - tecnologica che idolatra il tempo perché è "denaro", che "lotta contro il tem­po" ed è sempre "di corsa contro il tempo", per cui ognuno è convinto "di non avere tempo". "Donare tempo" a Dio, a se stessi, agli altri, al creato, non è forse "do­nare la vita"?

fine del primo racconto Masoretico -Eloista-sacerdotale
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secondo racconto Jahvista

GLI INIZI DELL’UMANITÀ (2,4b-25)
ll racconto della creazione ricomincia daccapo. Seguendo un'altra tradizione - denominata Jahvista (J) (in questo testo ebraico Dio non viene più chiamato Eloimh ma Jahvè) si narra di nuovo la creazione dell’«umanità» (2,4b-7), successivamente presentata come composta da uo­mini e donne in relazione di reciproca accoglienza e stima (2,18-25). Essi sono collocati nel giardi­no di «Eden» con il compito di «lavorarlo e custodirlo» (2,8-15), e soprattutto con il comando/impegno di ascoltare la parola del Signore Dio per farne il fondamento della propria esistenza (2,16-17). Il "paradiso terrestre" è la situazione ideale, quale Dio la vorrebbe: è il "so­gno" che ognuno possa stabilire relazioni armoniose con tutti e così vivere felice e "benedetto".

Seguirà poi la narrazione del testo Javista con le spiegazioni secondo le rivelazioni dei testi Valtortiani.